Non vorrei farlo di più, anzi mi chiedo: ma chi me lo fa fare?
Dipingere non è l’attività rilassante, né tantomeno facile, che parecchi si figurano.
E chiariamolo subito: la difficoltà non sta nel sapere o meno disegnare. Io so disegnare molto bene, non è questo il problema e, per inciso, non è detto che il talento abbia molto a che fare col saper disegnare. In ogni caso, non voglio parlare di questo. Non mi interessa capire se sono o meno un’artista, né se sono o meno abbastanza “brava”.
Non è questo il punto.
Mi chiedo invece, se ne valga la pena. Vorrei cercare di capire perché lo faccio.
Dipingere è una guerra, decidere di iniziarla è una roba da pazzi. Sono pazza?
Perché non riempio le mie (rare) ore di solitudine con attività amene e rilassanti invece di partire in battaglia? Perché non mi godo la pace?
Ecco, forse il talento ha più a che vedere con una sensazione di disagio, con l’assenza di pace. Chi crea è costantemente insoddisfatto e in agitazione. Ora, io sarei una persona tranquilla e che adora il dolce far niente (e tutto torna: produco piuttosto poco), ma devo ammettere che sotto la biancana apparente, ribolle qualcosa. E va in accumulo, parte come una semplice increspatura dell’acqua, poi pian piano genera correnti e infine un bel gorgo. Quando il turbinio diventa una smania insopportabile, quando come dico io “mi pizzicano le mani”, non posso far altro che prendere (prima la Canon e poi) i pennelli e iniziare.
In realtà, non ho scelta, non ce l’ho mai avuta.
Almeno, negli anni, sono riuscita a liberarmi quasi del tutto dai sensi di colpa.
Perché i sensi di colpa?
Perché la scomoda verità (e lo so che suona male) è che quando dipingo non me ne frega più niente di nulla e di nessuno. Siamo solo io e il mio lavoro, a combattere insieme. Non è mai facile far accettare a tutti gli altri (e neanche a me stessa) questo bisogno di chiuderli fuori. Ma lasciamo perdere anche questo concetto, per un attimo facciamo finta che sia giusto essere un po’ egoista, mi assolvo pensando che in fondo rubo solo pochi giorni nell’arco di un anno dedicato quasi esclusivamente a prendermi cura degli altri.
In ogni caso, sapendo che sto partendo per il fronte, chi mi dà la forza di iniziare?
Bè, lo faccio in uno stato di momentanea incoscienza (come se mi fossi dimenticata in cosa mi stia imbarcando), ma presto me lo ricordo, patisco e fatico. Arrivo sempre a un punto in cui penso di non farcela e mi maledico per non aver scelto di farmi una bella passeggiata e di mangiarmi un gelato.
Ma tengo duro (e sono ore, non minuti), proprio quando comincio a sentirmi anchilosata e dolorante (la pittura mi sfinisce), quando ormai non ci vedo più (in senso letterale), proprio allora, intravedo la possibilità di cavarmela.
E allora non posso più mollare, chi se ne frega dei dolori: è troppo importante!
Diventa tutto più semplice, comincio a condurre il quadro dove voglio io (o ad accettare il posto dove mi sta portando lui) e a percepire così il sapore della vittoria. È un sapore così dolce.
Ci penserò fra un po’ di tempo, mi concedo di continuare la propagazione ancora per un po’.
Un problema alla volta, oggi non mi sto chiedendo se abbia o meno un senso creare qualcosa, ma solo se meriti investirci così tanta fatica.
Il mondo è fatto di persone che creano e persone che distruggono, mi fa piacere pensare di appartenere alla prima categoria e mi assolve la consapevolezza che ogni cosa da me creata (per quanto orrenda possa essere) incontrerà un giorno il suo distruttore (in veste di tempo o di persona). Insomma, poco danno: non sto inquinando il mondo in modo irreversibile.
Ogni volta che termino un quadro (brutto o bello che sia, purché vero), mi sento finalmente in pace. Sono esausta e va bene così. Torno a una vita normale, torno a pensare ad altro (e agli altri).
Non so quanto durerà questa pace, a volte per mesi. So che prima o poi inizierà di nuovo a crearsi una corrente sotto la superficie. All’inizio farò finta di non averla notata e tenterò di nuotare in un'altra direzione (una direzione più comoda, sicura e confortevole). Rimanderò finché potrò, infine arriverà di nuovo il momento di combattere.
Non è il mio mestiere (non mi mantengo con questo), non è la mia missione (non sono molto originale e non lancio particolari messaggi all’Universo).
E’ la mia esigenza, forse la mia follia, inevitabilmente, il mio destino.
Lalla
con il primo pannello de "la Bellezza", olio su masonite 50x35 cm |