Durante il regime fascista vi vennero reclusi diversi dissidenti politici e un gruppo che aveva rifiutato la leva (in seguito fucilato). Dopo la seconda guerra mondiale questa piccola ala carceraria divenne tra le più temute d’Italia.
Il primo impatto con l'ambiente mi ha stretto lo stomaco.
Ciò che mi ha ferito maggiormente non è stata la metratura ridotta delle celle, ma la mancanza di luce. Le finestre non sono vere finestre, ma solo prese d’aria che affacciavano su un corridoio. Non si vede il cielo. Non concedevano di percepire lo spazio aperto neppure all'esterno (e spesso venivano oscurate). I detenuti non potevano osservare il cromatismo di un’alba o di un tramonto, il mutare delle nubi, l’alternanza tra notte e giorno. Niente, solo buio, per giorni e giorni. Che carognata.
L’assenza di luce è una forma di tortura e porta alla disperazione.
Poi, la sorpresa che è arrivata a commuovermi: nonostante quegli uomini fossero stati rinchiusi con il chiaro intento di portarli a un passo dalla morte, molti di loro sono stati capaci di sentirsi ancora vivi.
I detenuti potevano comunicare con i secondini solo scrivendo con un carboncino le richieste su dei piccoli foglietti da inserire in un cassettino/feritoia; ebbene, molti hanno utilizzato quei carboncini anche per scrivere sulle pareti. Motti politici, battute di spirito, calendari e forse un alfabeto morse.
Infine, alcuni hanno scelto di disegnare.
Hanno scelto la pittura come conforto e cura.
lalla