giovedì 27 febbraio 2025

la pittura come cura al "carcere duro" delle Murate

Qualche giorno fa ho avuto modo di visitare uno spazio del vicino complesso delle Murate che ancora non conoscevo: il carcere duro.
Durante il regime fascista vi vennero reclusi diversi dissidenti politici e un gruppo che aveva rifiutato la leva (in seguito fucilato). Dopo la seconda guerra mondiale questa piccola ala carceraria divenne tra le più temute d’Italia.
Il primo impatto con l'ambiente mi ha stretto lo stomaco.
Ciò che mi ha ferito maggiormente non è stata la metratura ridotta delle celle, ma la mancanza di luce. Le finestre non sono vere finestre, ma solo prese d’aria che affacciavano su un corridoio. Non si vede il cielo. Non concedevano di percepire lo spazio aperto neppure all'esterno (e spesso venivano oscurate). I detenuti non potevano osservare il cromatismo di un’alba o di un tramonto, il mutare delle nubi, l’alternanza tra notte e giorno. Niente, solo buio, per giorni e giorni. Che carognata.
L’assenza di luce è una forma di tortura e porta alla disperazione.
Poi, la sorpresa che è arrivata a commuovermi: nonostante quegli uomini fossero stati rinchiusi con il chiaro intento di portarli a un passo dalla morte, molti di loro sono stati capaci di sentirsi ancora vivi.
I detenuti potevano comunicare con i secondini solo scrivendo con un carboncino le richieste su dei piccoli foglietti da inserire in un cassettino/feritoia; ebbene, molti hanno utilizzato quei carboncini anche per scrivere sulle pareti. Motti politici, battute di spirito, calendari e forse un alfabeto morse.
Infine, alcuni hanno scelto di disegnare.
Hanno scelto la pittura come conforto e cura.
La cella numero 45 conserva due paesaggi dal tratto pulito e fresco (segno di una mente ancora incredibilmente lucida): una veduta cittadina datata 25 settembre 1945 e un’oasi nel deserto (chissà se ricordo di un viaggio o metafora della salvezza).
La cella numero 65 mostra un’ammaliante figura femminile con blusa elegante e mano sul fianco. Il punto di vista leggermente ribassato dello spettatore le conferisce potenza. Sulla destra, una scena erotica piuttosto naif espressione del desiderio spontaneo e giusto dell’autore di assaporare ancora il piacere.
Anche la cella 66 è decorata con tre figure femminili a grandezza naturale. Nella parete di sinistra sorprendono una sorta di danzatrice del ventre (maestosa e dettagliatamente agghindata) e una donna nuda dal busto di profilo (con seni perfettamente in scorcio prospettico) e sguardo intenso. 
Queste figure femminili mi hanno ricordato quelle del Simbolismo tardo ottocentesco (la Salomé di Gustave Moreau, per intenderci). Mi hanno trasmesso un senso di potere quasi mistico. Sono vere e proprie dee, dell’amore, della procreazione, della vita.
Sono vere e proprie opere d’Arte. E non importa se mancano di virtuosismo tecnico (evidentemente impossibile, considerando il contesto e la privazione di mezzi). Sono Arte nella sua accezione più pura ed elevata. Lo sono come compiutissima espressione di sé del detenuto che, in quel momento, per esigenza e non per posa, si è fatto artista. Tanto quanto lo è stata Frida Kahlo rappresentando ed esorcizzando per tutta la vita il proprio dolore fisico e psicologico attraverso autoritratti surrealisti. Tanto quanto lo sono stati gli uomini preistorici scolpendo “veneri” come speranza di prosperità, fertilità e sopravvivenza. Tanto quanto lo diventa chiunque quando intensamente percepisce l’esigenza di creare per resistere al dolore dell’esistenza e poter continuare a vivere.

lalla

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