Questo post è troppo lungo e parla di cose del
passato, non lo leggete, è meglio.
Fosse per me, manco l’avrei voluto scrivere.
Io vivo nel presente e vorrei parlare solo di quello.
Ma vivo in una casa piena di oggetti che mi parlano, l’80% vengono da una
storia antica, quindi di quella amano conversare. In questi due anni ho buttato via
un po’ di roba, troppo poca per i miei gusti. E’ difficile: io vorrei far
tacere tutte queste voci, ma Elia ha il diritto di sentirle, ha il diritto di
ricordare, non potevo mettergli a soqquadro la casa da un giorno all’altro. Ci
aveva già pensato qualcun altro a mettergli a soqquadro la vita, da un giorno
all’altro.
E allora con tutta questa matassa di oggetti ci convivo, però insomma, quando
uno di loro urla troppo forte e al secondo richiamo non si cheta, lo butto via.
Un oggetto alla volta, pian piano e senza fretta sto “detheizzando” la casa e
la mia vita.
Uno di questi oggetti parlanti è la mia testata del letto, la sua è una lunga
storia.
Davvero troppo lunga, andate a farvi un giro.
Un antefatto: ci siete mai entrati nel temibile “tunnel della sfiga”? Tipo che
di punto in bianco ti tocca tutta una serie di fregature senza soluzione di
continuità? Che poi tu sei pure una bella tosta e sicché non è che ti abbatti
alla prima sfiga, e nemmeno alla seconda, e nemmeno alla terza, e manco te ne
stai lì come un’ameba a prender schiaffi, reagisci ogni volta, ogni volta
rialzi la testa, ogni volta smetti di pensare al passato, a quello che è stato
e ti riaffacci ottimista verso il futuro. Ogni volta pensando “dalle ceneri
delle brutte esperienze si rinasce arricchite e meglio di prima”, ma purtroppo
non sei la Fenice e soprattutto, ancora non l’hai capito, ma sei entrata nel
“tunnel della sfiga” e da lì manco la Fenice sarebbe uscita incolume. C’è poco
da fare: non dipende da te (da come sei o da come ti comporti), qualunque cosa
tu faccia non sei padrona del tuo destino: pian piano precipiterai dalla
padella nella brace, sui fornelli, nel tostapane, infine nel micro-onde e meno
male che in casa non hai il forno a legna di Hansel e Gretel, altrimenti pure
lì!
Insomma, voi mai? Io invece sì.
Cominciamo: come detto nel post precedente, dopo un anno passato ad abituarmi
all’idea che il mio babbo e la mia famiglia tutta fossero ammalati e mutilati
nel corpo e nello spirito, mi stavo affacciando al 2008/2009 desiderosa di
voltare pagina e piena di belle speranze. Bè, chi visse sperando…
Non è stato solo un anno peggiore quello che mi aspettava, ma pure bastardo
perché all’inizio faceva ben sperare: il babbo andava benino, io avevo questo
giocattolo nuovo del blog che mi entusiasmava e anche il Re dei Sugolini, che
alla materna palesava un po’ di problemi di socializzazione, ormai aveva legato
con i compagni e sembrava molto più tranquillo. Suvvia, un bel periodo e
andiamo che splende il sole: spieghiamo le vele verso il mare aperto… e
infiliamoci in una tempesta!
Talmente mi ero fatta prendere dalla corrente positivista che un giorno a
pranzo eravamo solo io e quel tipo che amavo e (nonostante le terribili
disavventure registrate durante la gravidanza di Elia e la sua/mia quasi morte
al momento del parto) ebbi un’idea malsana: avere un altro bambino, anzi:
essendo in vena di sognare, meglio se una bambina e l’avrei chiamata Emma. Bel
film mi ero girata, vero? A fine pasto lo comunicai al tipo tutta giuliva, a
quello non parve il vero, andammo in camera e rimasi incinta. Maledetti ormoni
traditori, sono stati loro a parlare quel giorno, ne sono certa, non il mio
cervello!
Comunque, io sono un po’ streghetta e iniziai a dipingere un grande legno di
compensato trovato a un cassonetto (ganza l’idea di riabilitare un oggetto rifiutato
e gettato nella spazzatura, avete mai sentito parlare della storia della cacca
di cane da cui nascono fiori? Ve la spiego dopo). Volevo creare una testata del
letto fatata, sarebbe stata la nostra ninna nanna, ogni sera e ogni mattina ci
avrebbe raccontato quell’amore infino che provavamo l’una per l’altro, quello
stato di grazia, quell’abbandono totale alla positività, quel brivido
meraviglioso che si prova tuffandosi nel vuoto e nello stesso tempo sentendosi
sicuri, quella condivisione, quel sogno che ci stava cullando (lo so, lo so: romantico
da procurare il diabete, che volete che vi dica? Era pur sempre un bel film!).
Cavolo, se ci ripenso, incredibile con quale cieco ottimismo mi stessi buttando
nel fuoco! Un po’ mi ero fatta fuorviare dalle solite frasi cretine che tutti ripetevano sempre: “ogni gravidanza è diversa dalle altre” “vedrai che questa
sarà una passeggiata rispetto alla gravidanza di Elia” “finalmente avrai
l’occasione per goderti questa esperienza” “una donna incinta non è una donna
malata, anzi: è in stato di grazia!” “la seconda volta il parto è una
passeggiata”…
Niente è andato come pensavo e guardate che in gravidanza si pensano un po’
tutte, bellissime o pessime, ma niente, neanche vicina ci sono andata, neanche
quando la pensavo bruttissima e temevo di ripetere l’esperienza precedente
(giravo un sacco di film, ma quelli dell’orrore no!). A parte le nausee che
cominciarono a torturarmi, a parte il fegato che andò subito in tilt, a parte
le contrazioni che dal quarto mese mi costrinsero a riposo: tutto questo lo
avevo messo in conto, ma per il resto niente, niente è andato come pensavo.
Intanto il tipo cominciò a comportarsi in modo un po’ strano, non sembrava
molto coinvolto, non voleva “perdere tempo” per accompagnarmi alle ecografie
“Viste quelle di un figlio le hai viste tutte, non puoi farti accompagnare
dalla tua mamma? A che serve che venga anch’io? Andrà tutto bene, sei tu che
sei troppo ansiosa!”.
Adesso, col senno di poi, potrei dire: “troppo ansiosa una s… non mi fate
parlare! Troppo scema a tenermi accanto uno del genere!”. Ma allora, chi ci
capiva più niente, se mi sentivo un po’ trascurata davo la colpa ai miei
ormoni, e invece quelli, poverini, questa volta si stavano comportando proprio
bene.
La testata del letto mi sussurrava cose strane, che mi tornavano poco, e io
smisi di dipingerla, l’odore dei colori mi dava la nausea e non ce la facevo a
tenere le braccia alzate, mi stancavo troppo.
Poi le nausee allentarono la presa e io ripresi la pittura riuscendo a finire,
però ve lo confesso: la parte sinistra (quella che conteneva il tipo) non mi ha
mai soddisfatto del tutto, mi sembrava un po’ meccanica e ripetitiva (anche
negli arabeschi cromatici dello sfondo), la verità è che l’avevo dipinta
cercando di tenerla in silenzio e non era più del tutto sincera.
La gravidanza è continuata piuttosto bene fino al quinto mese e io, anche se un
po’ delusa dalle noie fisiche e dal contorno un po’ freddino, continuavo a
gustarmi il mio sogno e la mia positività. Fino all’ecografia morfologica. Quel
giorno il tipo mi accompagnò (era curioso di scoprire il sesso) e non era solo,
brutti dementi irresponsabili: portammo con noi anche il Re dei Sugolini a
“conoscere” la new-entry. Sembrava davvero meritarselo, lui che invece era già
troppo coinvolto e non faceva altro che disegnare patate con occhi e ciglia
dicendo che era il ritratto di “Emmolina”, la sua sorellina nella pancia della
mamma!
Stavano scherzando di questo (del fatto che il fratello avesse o meno
indovinato il sesso) i tre maschi attorno a me, mentre il Dottore mi preparava
all’esame bagnandomi la pancia col gel.
Ed eccoci arrivati, del tutto sconsideratamente, al momento topico.
Ogni volta che nella mia vita c’è stata una deviazione repentina e
inarrestabile io l’ho vista scritta in una faccia. Cioè: da una singola
espressione ho capito tutto quello che sarebbe successo dopo. Gli altri intorno
a me no, non so come hanno fatto, ma non si sono mai accorti di niente, hanno
lasciato scorrere le proprie vite nell’inconsapevolezza. Eppure erano così
chiare quelle facce, così violente! Come hanno fatto gli altri a non vederle?
Come hanno fatto a non riconoscere quelle porte spalancate su un baratro?
Nel momento preciso in cui io le ho individuate, ho anche sentito con assoluta
certezza che mi ci avevano già spinto dentro e che non sarei mai più potuta
tornare indietro. Quelle facce mi si sono stampate nel cervello.
Una di queste facce, che purtroppo rimarrà sempre con me, è quella che, per una
brevissima frazione di secondo, trasfigurò il dottore che mi stava facendo
l’ecografia morfologica. Quella faccia, inaspettata e inappellabile poteva
avere un solo significato possibile: “c’è qualcosa di gravissimo. Fine del
sogno e della positività”. Fine del film.
“Dottore, cosa c’è che non va?”
E lui, stizzito, sentendosi colto in fallo: “ma niente Signora, è solo che si muove, non
riesco ad avere una buona visione del cranio” e cambiando discorso,
vigliaccamente: “ha ragione il piccolo Elia: è una femmina, è Emmolina”. A quel
punto poteva proprio risparmiarselo di farci sapere il sesso.
Poi, prima di uscire, mi fece sedere e vuotò il sacco.
Ora, non è la sede per spiegare cosa avesse il mio feto: in poche parole il
cervello non andava bene, ma non era una diagnosi certa, potevamo sperare in un
ritardo evolutivo.
Io odio l’incertezza, non c’è niente di peggio del non sapere e del non capire.
I parametri per interrompere la gravidanza c’erano tutti, a livello legale, ma
io volevo e pretendevo la chiarezza necessaria che mi consentisse di fare una
scelta (giusta per noi e giusta per lei).
In Italia i tempi erano strettissimi (la legge sull’ITG fa schifo, non concede
i tempi per gli accertamenti necessari), nessuno poteva dirci davvero come
stessero le cose, capii subito che solo un elemento avrebbe potuto chiarire la
situazione: il tempo. Per fortuna al confine con l’Italia c’è la Francia e così
ho potuto concederglielo, come avrei potuto fare altrimenti? Ai figli tutto si
concede. Mi sono resa conto che forse quella sarebbe stata l’unica cosa che
avrei mai potuto fare per mia figlia: non farmi prendere dal panico e darle
tutto il tempo di cui aveva bisogno. Io non lo so come fanno le altre donne, io
sono per lasciare la libertà di scelta a tutte, ma nel mio caso, per come sono
fatta io, non avrei mai potuto prendere così alla leggera una decisione tanto
irreparabile, farlo così, a caso, mi sembrava un’ingiustizia terribile. Mi sono
sottoposta ad analisi in Italia e all’estero, abbiamo ascoltato molti esperti e
fatto consulti di ogni genere.
Il tipo accanto a me aveva ripreso interesse, anzi era tutto infervorato,
traduceva testi di medicina alle due del mattino, non ne sono certa ma penso
che avesse imbastito una specie di battaglia personale per dimostrare che la
bambina fosse sana. Ho resistito un altro mese, l’ho fatto per lei e ne sono
fiera, ne valeva la pena, anche se era terribilmente triste sentirla scalciare
e “sopportare” i complimenti al mio pancione o gli sguardi dei passanti.
Lei mi ha ripagato: alla fine mi ha dato una certezza, certo non era quella che avrei desiderato sentirmi dare, ma almeno mi ha accompagnato nella strada che ho bovuto percorrere. É peggiorata drasticamente, le deformazioni si sono propagate, praticamente metà del cervello si è riempito d'acqua, i lineamenti del volto sono scesi, il cranio si è aperto in due: basta.
Per il bene di Elia, per il bene mio e anche per il suo: basta. Per il bene del
tipo non posso dirlo perché mi pare che da quel momento in poi abbia iniziato a
sbroccare.
Il 29 luglio 2009, nel giorno del quarto compleanno di Elia, ho partorito a
Nizza una piccola salma e ho impedito a quella creatura innocente di proseguire
il suo percorso di dolore. L’ho partorita da sola perché il tipo se n’è andato
(col solito senno di poi, in quel momento, senza preavviso e senza un saluto,
mi ha lasciato la mano, è uscito da quella stanza e dalla mia vita, non c’è
mai più rientrato veramente), mi ha lasciato sola tra le lacrime a spingere,
circondata da estranei che parlavano una lingua per me incomprensibile. Aveva
di nuovo perso interesse, d’altronde visto nascere un figlio (vivo) li hai
visti tutti, giusto? Non valeva certo la pena restare e guardar nascere una
figlia (morta). Solo le cose nuove, facili e piacevoli valevano la pena di
essere vissute. Sì, lo so cosa pensate del tipo, ora lo so anch’io, ma prima no,
prima non sapevo niente. Ci rimasi malissimo, ma trovai il modo di scusarlo,
pensai solo che non ce l’avesse fatta.
Io invece dovevo farcela per forza. Non vale la pena solo di fare le cose più
piacevoli o più facili, vale veramente la pena di fare solo una cosa: quella
giusta. E io l’ho fatta da sola. Non è stata una passeggiata di salute, ma l’ho
fatta, senza rimorsi: non è colpa di nessuno se quella creatura stava così
male, siamo animali, è la nostra natura, sono cose che possono succedere e bisogna
farsene una ragione.
Però insomma, un bell’annetto leggero, vero?
Ed eccoci a settembre e al nuovo anno:
2009/2010.
Elia è caduto nel sonno dal letto (in vita sua è caduto due sole volte) e
si è spezzato la clavicola, l’ho accudito tre settimane, una volta rientrato
alla materna, ha preso l’influenza, che culo.
Dalla scuola, per l’incarico annuale, la chiamata tardava ad arrivare. Alla
fine quell’anno mi toccarono solo 2h.
Con 2h di insegnamento a settimana se mi avessero chiesto “che lavoro fai?”
avrei potuto ancora definirmi “insegnante”? Con 2h a settimana non si campa e
non ci si sente stanchi e realizzati. Stressati sì, pure di più che con
l’orario pieno.
Che potevo fare, stare a piangermi addosso perché io sono una brava insegnante e
tutto questo era ingiusto? Ma per carità! Come al
solito: nella vita si va avanti e ci si adatta, ancora e ancora… (che donna,
anche i film dei supereroi mi sono sempre riusciti benissimo).
Mi concessi di dedicarmi ancora di più alla pittura e magari farla diventare un
lavoro. Non facevo niente di male infondo, era la scuola (il “lavoro
ufficiale”) ad avermi tenuto in sospeso e allontanato, quindi ero del tutto
giustificata a dedicarmi ad altro (si trattava di adattamento appunto, non di
tradimento) e il mio maledetto senso del dovere, per una volta, mi lasciò in pace.
Cominciavano ad essere una bella pila di sfighe a cui dover reagire: alla
malattia del mio babbo, alla gravidanza andata male, alla semi-disoccupazione,
alla sensazione di fallimento… tutti intorno a me a raccontarmi la
storia che “finalmente avevo del tempo per me”, “adesso sì che avrei potuto
seguire la mia strada e le mie passioni”, “finalmente sarei stata davvero me
stessa” e magari “avrei venduto i miei quadri e avrei avuto un grande
successo”, “ma che fortuna essere rimasta senza lavoro!” (“che fortuna aver
perso la bambina” no, fino a quel punto non ci era arrivato nessuno, tranne il
tipo, lui pure quello mi ha detto, nel 2016, mai dire mai).
E comunque: che palle tutte queste frasi fatte del cavolo.
La gente vorrebbe che ce le raccontassimo ogni volta che la prendiamo in tasca,
ogni volta che prendiamo una sberla, di quelle forti da spostarti la mandibola,
ma sono solo cazzate!
Diciamo, più onestamente, che, nonostante le sberle ripetute e nonostante tu
sia entrata nel “tunnel della sfiga”, in qualche modo si va avanti, ci si
adatta e ci si reinventa.
Ecco, adesso ve lo spiego: non è che da una cacca di cane deve per forza
nascere un fiore, cioè magari il cane aveva mangiato proprio acido e ha
diserbato per bene il terreno, oppure ci nasce un po’ d’erba stentarella, o (passato
il tempo debito) ci nasce la stessa identica erba di prima (che infondo siamo
fatti come siamo fatti e se io di lavoro facevo l’insegnate e non la pittrice
voleva dire che per lavoro avevo scelto di fare l’insegnate e non la pittrice e
infatti dopo 8 anni faccio di nuovo l’insegnate e, per diletto, la
pittrice)…che non se la prenda nessuno a male: il fiore può darsi che nasca
comunque, 10 cm più in là, e assai probabilmente sarebbe nato pure senza la
cacca di cane!
Comunque, la testata del letto (quella dipinta col film del nostro amore) parlava
forte, protestava e mi dava fastidio, non riuscivo più a guardarla, non so,
forse l’avevo stregata davvero, non ce la volevo in camera. E’ rimasta molti
mesi nello studio in attesa di una cornice.
In agosto mi erano pure iniziate le coliche d’aria allo stomaco e la gente a
dire “vedrai che è per quello che ti è successo” “saranno crisi psicosomatiche”
“sarà per il dolore mentale che provi a causa dell’ITG, ma che non esprimi
abbastanza, per questo il tuo corpo ti fa stare male fisicamente”… Ah, sì? E
datemi uno psicofarmaco allora! Ma io che la stavo a sentire a fare “la gente”?
Guarda: da una parte meno male che adesso (dopo che sono stata piantata) non mi
caca più nessuno!
Altro che psico-balle: era la cistifellea piena di sabbia, la gravidanza aveva
appesantito tutto il mio sistema epatico (già malridotto di suo), a ottobre mi
sono operata e me l’hanno tolta: fine delle coliche (e delle cazzate
psicosomatiche).
Appena rimessa iniziai a dipingere con maggiore impegno e dedizione, mi sbilanciai
anche con investimenti economici (non è il momento, ma prima o poi un bel post
su quelle sanguisughe dei galleristi ci starebbe proprio bene!) e insomma in
quell’autunno cercai di trasformare in professione qualcosa che non lo era mai
stato e guarda caso non lo è diventato mai. Non ho avuto successo proprio per niente, ho continuato a vendere sempre pochissimo e meno male che la scuola ha
avuto di nuovo bisogno di me o sarei alla fame.
I mesi passarono, arrivò l’autopsia della piccola salma da Nizza, malformazioni
molto gravi e anomalie cromosomiche (non la solita “famigerata” trisomia
conosciuta da tutti, siamo tipi un po’ speciali, anche nei malanni).
Abbiamo fatto degli accertamenti, anche su di noi. Una volta conosciuto il
nemico, col permesso del mio epatologo e della nostra genetista, ho deciso di
riprovarci. Il tipo diceva di amarmi e di desiderare tantissimo un altro
figlio, io avrei fatto qualsiasi cosa per cercare di renderlo felice e di farlo
rientrare veramente nella nostra vita (nel nostro quadro). Sì, certo, ora lo so:
il suo non era un desiderio d’amore, probabilmente aveva già smesso di amarmi
perché io mi ero macchiata, ero colpevole di aver partecipato ad eventi
imperfetti; il suo era solo un desiderio di rivalsa: voleva dimostrare di poter
avere un altro figlio sano.
Ma non ho rimorsi, non ho deciso solo per lui: anche io desideravo un altro
figlio, ero stata io quel giorno a chiedere il secondo e la mia gravidanza
iniziata non era mai finita. Ero ancora psicologicamente incinta, rimasta in
attesa di qualcuno che non era arrivato mai.
Questo nuovo progetto mi riagganciò al vecchio sogno, d’un tratto quello che la
testata del letto mi raccontava sembrò di nuovo possibile, sincero e giusto, costruii
una cornice e la appesi al suo posto.
Ricominciai a girare il mio film, ma ben presto mi accorsi che costava troppo. Era diventato un
salasso psicologico e fisico: dopo pochi mesi un nuovo aborto spontaneo (OK,
può capitare), poi un altro (succede), poi un altro ancora (ma perché?) e
ancora uno (dopo che gli avevo già visto battere il cuore in ecografia): basta.
Per il bene di Elia e per il mio bene: basta.
Vorrei dire per il nostro bene, cioè anche del tipo, ma non posso dirlo perché mi
pare che per lui quegli aborti non significassero niente “ma che vuoi che sia,
dopo quello che è successo a Nizza?”, per me invece significavano tutto e
rischiavano di distruggermi. Lui avrebbe continuato a provare in eterno
(d'altronde il corpo era il mio, l’anima pure evidentemente, che gli costava?). Una decisione del genere, da parte mia, era imperdonabile perché a quel punto gli fu
chiaro: era solo colpa mia se lui non poteva avere un secondo figlio sano e
dimostrare di essere perfetto.
E infatti, non me lo lasciò fare: dopo qualche mese di silenzio, una sera
d’agosto, senza il mio consenso, mi mise incinta.
Cavolo, che anno difficile il 2015/2016!
Il tipo era di nuovo tutto infervorato, lui che finalmente aveva preso in mano
il proprio destino e dimostrato di poter fare del mio corpo quel che voleva.
Non ho più voglia di raccontare, non posso ricordare di nuovo come mi abbia
fatta sentire in gravidanza (inadeguata e colpevole dei fallimenti precedenti),
di come mi abbia umiliato ogni giorno di più e spinto verso il punto di
rottura. La testata del letto, non ce la facevo più neanche a guardarla, non sopportavo
come se ne stesse appesa lì, a ricordarmi di quanto mi fossi sbagliata e a compatirmi.
Non capivo dove il tipo volesse arrivare (lo voleva o no questo nuovo figlio?),
non lo riconoscevo più (altro che film romantico), ero terrorizzata dalla sua
freddezza e dal suo distacco, ma ormai io non potevo lasciarmi schiacciare, non
potevo cedere, non adesso che finalmente, dopo ben 5 anni, nella pancia portavo
di nuovo una piccola bambina e accanto a me avevo Elia, la persona più
importante della mia vita. E infatti non ho ceduto mai, ho continuato a prendermi cura di entrambi i miei figli
(quello fuori e quello dentro di me) e ho pure vinto un concorso scolastico,
sostenendo l’orale al nono mese di gravidanza.
Invece fu lui a crollare, a un mese dal parto, mi chiese scusa in 1000 modi
diversi, pianse tra le mie braccia per i successivi quattro mesi, era di nuovo
così empatico e dolce, io l’ho scusato ancora (l’amore rende stupidi, il mio
era infinito e veramente demente: non aspettava altro che lui tornasse da me).
Il parto di Matilde, per inciso, è stato terribile. “Ogni gravidanza è diversa”…
Sì, certo, infatti ogni mia gravidanza è stata peggiore. Ero arrivata a
termine, positiva allo streptococco, una mattina sono cominciate delle perdite
d’acqua, "é il momento, portami all’ospedale" (il tipo era in modalità straccio da dare in
terra), mi hanno rimandato a casa dicendomi che mi sbagliavo, che il sacco non
si era rotto (delinquenti!), ma io la sera ho puntato i piedi e mi sono fatta
riportare all’ospedale (lui non voleva “facciamo una figuraccia a tornare, ci
hanno detto di aspettare le contrazioni”, è no, cazzo! Ora basta fare solo
quello che mi dicono, basta fare la brava ragazza, io non me la faccio portare
via mia figlia, dopo tutta questa fatica!), abbiamo indotto il parto,
l’infezione era ormai gravissima e la bambina è quasi morta.
Ma porta miseria, una dritta mai?
Il dottore tentò di consolarmi: “non pianga Signora, la colpa non è certo sua,
suo è il merito di essere tornata stasera, non avrebbe superato la notte, lei
le ha salvato la vita”.
Dopo poche ore la mia piccola cominciò a migliorare, è una lottatrice come
la sua mamma!
Ecco, una roba del genere è stata pazzesca, è stato come sfiorare l’inferno, ma
proprio per questo è stata anche la porta del paradiso. Anche solo tenerla tra
le braccia non poteva non rendere felici. E vedere il Re dei Sugolini, che l’ha
amata dal primo istante, come facevo a non provare una gioia e una gratitudine
immense?
Bo, un modo evidentemente c’era visto che per il tipo tutto questo spettacolo
di meraviglia non era abbastanza, per altri 3 mesi non riemerse dal suo stato
larvale e di inappetenza verso la vita. Io amavo lui quanto amavo loro e quindi
vivevo spezzata in due: piena di felicità per i miei figli e piena di dolore
per il mio compagno. Giravo ancora film sul nostro amore (film francesi, molto
introspettivi) dove insieme saremmo stati capaci di sconfiggere la depressione
e qualsiasi altra difficoltà. Come facevo a non essermi resa conto che, a parte
la gravidanza di Elia, per il resto non avevamo mai affrontato nessuna
difficoltà insieme?
Ero sempre io da sola a dovermela cavare, quando mai mi aveva appoggiato?
Semmai aveva cercato di affondarmi! Ma perché ero tanto scema?!
A un certo punto il tipo ha trovato un modo semplice di farsi passare la
depressione: “per stare bene ogni tanto ho bisogno di pensare solo a me stesso”. Ma no, davvero? Comodino. Poi ha iniziato a
incolpare un po’ tutto e tutti del suo malessere (il lavoro, la casa esposta a
nord, la bambina) e da lì in avanti è stato solo questione di tempo: alla fine
ha incolpato me.
Ed eccoci al 2016/2017, l’anno più difficile e traumatizzante della mia vita
(ma non il peggiore, alla fine ha avuto i suoi risvolti positivi).
L’anno in cui ho dovuto dire addio al mio babbo (era, purtroppo, qualcosa di
inevitabile e che in ogni caso fa parte del corso naturale delle cose, è un
dolore lacerante, ma che lascia tanti ricordi, è un dolore giusto).
L’anno in cui ho definitivamente abbandonato la mia carriera di "cineasta amorosa".
E’ successo dopo un’altra di quelle facce rivelatrici, quelle facce/porte sul baratro che mi porto
stampate nel cervello e che non potrò dimenticare mai.
Avevo passato la notte ascoltando i respiri profondi di mio padre, sempre più
distanti, sempre più leggeri, fino all'ultimo, sospeso, e infine al
silenzio. Nonostante la consapevolezza di aver fatto tutto nel modo giusto, di
averlo salutato insieme alla mia famiglia, nonostante la dolcezza di aver
condiviso un momento di passaggio così importante, è stata una delle prove
fisiche ed emotive più sfinenti della mia vita. Quando è giunta la mattina, ci
guardavamo tutti come zombie cercando di connettere e di provare a
organizzare le cose pratiche, tipo il funerale, per dire, ma sembrava tutto
tanto irreale e basta. Sentivamo (tutta la mia famiglia, non solo io) un grande
vuoto e un terribile sentimento di irreversibilità.
Il tipo è stato il solo a non partecipare a niente, poi è arrivato, me lo
ricordo come fosse adesso, ha attraversato il prato e io gli sono andata
incontro, già da lontano stonava, tutto vestito alla moda e con l’onda di gel
nei capelli, e quando si è avvicinato ho visto quella faccia, quella faccia
inaspettata, terribile e inappellabile poteva avere un solo significato
possibile: “quello che provo io è bellissimo e di quello che provi tu non me ne
frega niente”.
Tanto per cambiare, nel momento di bisogno, lui una mano non me l’avrebbe data.
Ero così stanca che manco ho pensato che questo volesse dire che aveva trovato
un’altra e la fine della nostra storia, semplicemente basta: io in quel momento
non avevo né la voglia, né la forza di gestire le sue cazzate e i suoi egoismi,
gli dissi soltanto: “togliti immediatamente quel sorrisetto compiaciuto dalla
faccia altrimenti ti tiro un ceffone qui davanti a tutti”.
Sono stata ripudiata da un giorno all’altro e sostituita, rifiutata e buttata
nella spazzatura (come quel pezzo di legno), ma guarda, lo so che nessuno ci
crederà, non è questo il lato peggiore. Il lato peggiore è la disillusione del
personaggio (cioè: uno che ti tradisce mentre ti muore il padre palesemente non
può essere il protagonista di un film d’amore), il lato peggiore è la
conseguente disintegrazione di un sogno durato 19 anni, la perdita del passato
è qualcosa di peggiore rispetto alla perdita del futuro. Il futuro possiamo
ancora costruircelo, certo, diverso da quello che pensavamo, ma chi può dirlo?
Magari ci verrà pure meglio di quello che pensavamo (solita storia del fiore
che nasce e della cacca di cane), ma la cacca resta, il puzzo resta, il passato
rimane di merda, non si può più cambiare.
Il dolore che il tipo ha volutamente inflitto a me, la noncuranza con cui ha traumatizzato
mio figlio e condannato mia figlia non era inevitabile, l’ha scelto lui, l’ha
fatto di proposito, cancella i bei ricordi e non fa parte del corso naturale
delle cose, non è mai stato giusto.
Le solite frasi fatte della gente sono fioccate a mazzi ma a questo punto ve le
risparmio, poi il silenzio: sono spariti tutti. Per "la gente" vale la pena
frequentare solo persone che vivono in situazioni facili e piacevoli, niente
persone ferite o complicate, che hanno vissuto esperienze imperfette. In effetti "la
gente” è molto simile al tipo che viveva con me, infatti tra loro c’è accordo
perfetto. Meglio così. Facevano parte anche loro di una storia antica e di quella amavano conversare, se ne sono andati via spontaneamente (assai più dell'80%), uno alla volta,
risparmiandomi la fatica di doverli buttare come faccio con gli oggetti parlanti
di questa casa. Sono usciti dalla mia vita e così, almeno loro, hanno smesso di
parlarmi del passato.
La testata del letto… inaffrontabile, ho chiuso la porta della stanza e per due anni ho dormito
in un letto singolo in camera di mia figlia.
Anno scorso (2017/2018) ho cominciato a desiderare di tornare in camera mia, ho pensato a
varie soluzioni per la testata stregata:
1) Venderla, mi avevano suggerito la Saatchi Gallery, ma i termini di
iscrizione in inglese erano difficilissimi e rischiavo di ipotecarmi la casa
senza saperlo, allora ho provato a mettere un annuncio su facebook, avrei
accettato offerte anche scarse pur di levarmela di torno. Secondo voi? E’ grassa
se vendo 1-2 ritratti l’anno, figurati se qualcuno se la prendeva!
2) Prenderla ad accettate e poi fare un bel falò in giardino, magari di notte
danzandoci intorno, una specie di rito vudù, guarda, anche adesso che lo scrivo
mi ripiglia la voglia: secondo me questa un po’ sciamanica era la soluzione
migliore!
3) Meno drammatica, segarla in due e bruciare solo la parte col tipo.
4) Quella che poi ho fatto e me l’ha suggerita Matilde.
Un pomeriggio giocavamo con (le mie) Barbie sul lettone (non ho mai accennato
al fatto che sono una collezionista di Barbie = certamente una malata di
mente?) quando la Piccola Fata mi dice: “mamma lo devi finire questo quadro,
perché c’è solo Elia con te che dorme nei colori? Devi dipingere anche me!”.
Il tipo era di schiena, io ce lo vedevo moltissimo perché lo avevo dipinto
pensando a lui, ma forse bastava poco per vederci qualcun altro.
Così ho pensato che se Leonardo da Vinci ha avuto il coraggio di ritoccare il
quadro più famoso del mondo fino alla morte, io avrei potuto ritoccare una
testata del letto un po’ mediocre.
Va detto che il tipo era pure fissato che i miei quadri fossero troppo opachi (dipingo
su legno senza imprimitura) e mi aveva rotto le palle finché non avevo
ricoperto la testata di vernice brillante. Tali vernici sono delle emerite
schifezze e ingialliscono col tempo, in più non ci puoi rimettere sopra l’olio.
Poco male, sono andata di carta a vetro, una fatica bestia ma vi giuro che mi
ha dato una certa soddisfazione (anche se continuo a pensare che le accettate
sarebbero state più catartiche).
Al suo posto ho dipinto i miei amori. Ma allora è vero che da una cacca di cane può
nascere un fiore, anzi due? Lalla, ma che dici! Scusate, scusate, scusate: sono
una brutta persona.
Non ho ritoccato la parte destra quindi alla fine io sono troppo giovane
rispetto a loro, è una lalla sognatrice (e cineasta) quella raffigurata, ma va
bene così.
In fondo solo da quel volto sereno, abbandonato e puro, solo dalla mia
ingenuità, potevano nascere i miei figli. Non credo che avrei avuto la forza di
buttarmi tra le fiamme se avessi conosciuto il fuoco. E adesso che lo conosco,
ho perso quella purezza, ma posso assaggiare i suoi frutti meravigliosi.
Anche il Re dei Sugolini dorme tranquillo, sospeso tra i colori e sostenuto dai
capelli della sua mamma Strega e della sua sorella Fata (lei riposa col nasino
all’insù, impertinente e fiera). Dobbiamo stare attente noi femmine magiche,
dobbiamo proteggere e sostenere il nostro ragazzo, dobbiamo guidarlo senza
intrappolarlo (io lo so che l’amore può essere pericoloso, specialmente se
magico), ma i nostri capelli sono sciolti, sono solo una carezza che lo lascerà
libero di andare.
Ne è uscito un “ritratto simbolista” della mia famiglia, che (intendo il
quadro) non è niente di particolarmente artistico. Invece la mia famiglia lo è.
A parer mio (al di là delle implicazioni affettive) la testata è pittoricamente
migliore della versione precedente. E infatti anche il mio presente è migliore
di quello di 9 anni fa: una cacca in meno e un fiore in più… e basta Lalla, ma sei proprio tremenda!
Per forza che la gente ti schifa!
Il senso sarebbe: ecco perché il 2016/2017 non è per niente un anno da buttare, mi ha
fatto uscire col botto dal "tunnel della sfiga".
Tornando al quadro, l’infima vernice brillante è rimasta sul mio corpo, è
un’ombra giallastra che sporca gli azzurri e i bianchi, l’ha lasciata il tipo,
io me la tengo per adesso (c’è poco da fare), magari un giorno riesco a grattarmela
via dalla pelle, ma intanto mi rifiuto di stenderla sui miei figli.
Può darsi che questa testata cambi ancora, vorrei aggiungere tanti bianchi, schiarire,
far pulito e limpidezza… ho voglia che mi parli di un futuro di fiori.
Ma insomma, anche basta, mi sa che l’ho fatta davvero troppo troppo troppo lunga,
che in fondo è solo una testata del letto e se nove anni fa ero andata all’Ikea
con 200 euro m’ero tolta il pensiero!
lalla
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Testata del letto, olio
su legno di cassonetto, 167 x 83 cm, 2009.
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Testata del letto, olio
su legno di cassonetto, 167 x 83 cm, 2018.
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