C’è chi dice che chiedere scusa sia un segno di debolezza.
Allora io che lo faccio da una vita, a destra e a manca, e quasi sempre senza
motivo, dovrei essere considerata debole, no? E invece, mistero, tutti mi
considerano forte, una roccia. Indistruttibile.
E può anche darsi che io lo sia, per carità, ma questo non può essere una
valida ragione. Una ragione per essere insensibili nei miei confronti. Una ragione per fregarsene di me e dimenticarmi. Per non offrirmi un appoggio.
Che tanto lei è forte, che tanto lei ha mille risorse, che tanto lei sa
cavarsela da sola, che tanto lei non ha problemi ed è sempre felice.
Col cazzo che non ho problemi e sono sempre felice. E non è vero che le persone
non mi feriscono, invece, mi dilaniano. Con le loro piccole coltellate di
cattiveria, e con la loro indifferenza.
Potrei essere una delle donne più sensibili su questa terra, ma nessuno se ne
accorgerebbe mai perché io sono “quella forte”. Solo perché riesco ad assorbire
tutti i colpi (come un pungiball) non significa che io non li senta. Solo
perché mi sforzo per non far ricadere sugli altri le mie sofferenze, non
significa che io non le provi.
Lasciate che vi dica una cosa: essere considerata “quella forte” può trasformarsi
in una bella rottura di palle. (Aprirei una parentesi per sottolineare che sì,
credo anche io nel potere della parola, ma scelgo coscientemente di usare l’espressione
“mi rompo le palle” perché le ho anche io, proprio come quelle dei maschi, solo
che invece che esporle in un sacchettino refrigerante, me le custodisco al
calduccio, ma pari sono).
E’ una rottura di palle essere sempre colei che consola, colei che organizza e tira
su il morale gli altri, colei che “si prende cura”. Non perché sia faticoso (o fastidioso)
tutto questo, anzi, aiutare gli altri è bellissimo. La rottura di palle è quando
diventa palese che non ci sarà nessuno che farà altrettanto con te. Se tra tutti i proverbi dovessi sceglierne uno che considero veramente un’emerita cazzata, sarebbe: “chi semina vento, raccoglie tempesta” (oppure “chi di spada
ferisce, di spada perisce”). Ma quando mai? Non funziona così, non è vero
proprio per niente: i prepotenti fanno del male ai più buoni, le persone sono approfittatrici
e fredde soprattutto con chi è empatico e disponibile, sono più stronze con chi
è più gentile. Non esiste alcuna giustizia divina, e neanche un cazzo di karma.
Ma magari è solo un problema mio di incomunicabilità.
Forse riguarda solo me. Sono io a non essere in grado di chiedere, a non far
capire di cosa ho bisogno. Possibile? Davvero mostrare entusiasmo, gratitudine
e un sorriso, nel linguaggio universale, equivale a: “non ho bisogno di cure,
attenzioni e gentilezza, non preoccupatevi per me, tanto me la cavo benissimo da
sola”?
Perché si fermano al mio sorriso? Che è splendido e solare (su questo siamo
tutti d’accordo), ma perché nessuno è in grado di vedere oltre? Di percepire l’urlo
disperato che lacera da dentro anche le persone più forti?
Io credo che sia per questo che è una vita che cerco di
raccontarmi, a tutti, anche al gelataio. Per questo scrivo, per questo dipingo. Sono tentativi (disperati) di tirar
fuori, di comunicare. Sono richieste (spesso mal calibrate) di aiuto e di approvazione.
Può darsi che tutti gli artisti in fondo cerchino questo? Superficialmente,
molti sconosciuti gli danno ciò di cui hanno bisogno. L’acclamazione della
massa. Non è granché come forma di appoggio, ma è pur sempre meglio di niente. Talvolta
è più facile ottenere un aiuto da chi non ci conosce.
Le persone che mi sono state vicine, quelle che hanno vissuto con me, si sono
sempre spaventate. Anche quelle che mi amano si spaventerebbero, se non si
tutelassero. Per questo, io credo, si appoggiano a me, assorbono la mia gioia
di vivere e con me stanno bene, ma cercano di fermarsi al sorriso. Cercano di non porsi troppe
domande su quali siano i miei bisogni e, soprattutto, sul perché io senta una così forte esigenza
di creare. Perché altrimenti, se lo facessero, gli farei solo paura.
Alla fine della prima ondata di pandemia Covid-19, ho dipinto l’allegoria del 2020, avevo
bisogno di tirare fuori la frustrazione che provavo (e che provo tutt’oggi) nel
non poter più comunicare neanche attraverso la mimica facciale e col mio famigerato
sorriso. Nel non poter più leggere le espressioni complete. La pandemia ci ha
tolto anche questo, ha amputato i nostri volti, sono rimasti solo gli sguardi. Per
questo mi coprii bocca e naso con una mano e rimase solo il mio sguardo.(il Re dei Sugolini: 2020)
Sono passati due anni e i nostri volti sono sempre coperti. In questi giorni ho
lavorato all’allegoria del 2022. Il nuovo anno, tanto per non farci mancare
nulla, ci ha portato vicino a casa anche l’orrore della guerra. Non mi bastava
più tentare di comunicare l’angoscia e la paura attraverso gli occhi, sarebbe
stato troppo semplice.
Ci sono per tutti e, credetemi, ci sono anche per me, che sono “quella forte”.
lalla
"Allegoria del 2022", olio su masonite, 42 x 57 cm. |
P.S. Quando penso alla composizione e dipingo, non me ne rendo conto, ma la Storia dell’Arte ha impregnato tutta me stessa e si diverte ad inseguirmi. Una volta finito il quadro, l’ho guardato e mi sono resa conto di essere debitrice verso almeno due opere.
“L’urlo” di Edvard Munch (per aver rappresentato un grido esistenziale muto) e “La cantante con un guanto” di Edgar Degas (per quell’inusuale braccio in primo piano e per la bocca aperta). E vabbè, loro sono entrambi dei grandi e mi perdoneranno, lo so.
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