venerdì 23 luglio 2021

la sindrome di lalla

Io, delle volte, c’ho la “sindrome di lalla”, che non sarà la sindrome di Stendhal, ma è comunque una roba parecchio strana.
La prima volta mi è venuta a soli 17 anni, eravamo in gita agli Uffizi per vedere il “Tondo Doni” recentemente restaurato. Il mio professore di Storia dell’Arte era molto serio, competente e, dal mio punto di vista, pallosissimo. La guida che ci spiegava le fasi del restauro e gli agenti chimici applicati era probabilmente altrettanto competente e ancora più pallosa. Io ero una liceale molto seria, secchiona e piuttosto saccente. Mi ero fatta l’errata convinzione che la Storia dell’Arte fosse un’altra materia da studiare. Punto.
Quel giorno ho capito che mi sbagliavo, che l’Arte può essere soprattutto un viaggio da intraprendere, un luogo da esplorare, qualcosa da scoprire. E sentire.
Il “Tondo Doni” non mi piacque, un po’ per la guida logorroica, un po’ perché eravamo tutti affastellati e si vedeva male, un po’ perché Michelangelo è un violento e io a quei tempi non lo ero proprio e forse la “sindrome di lalla” presuppone una certa empatia emotiva. Non so. Non mi piacque perché nonostante l’arditezza compositiva, la potenza delle forme aggettanti e l’energia vitale, io non riuscivo a guardare altro che il piede di Maria, quel piede rosa stile Peppa Pig sul verde prato, quel piede quasi virile, ritagliato e laccato… e non mi piaceva quel piede via, mi dispiace dirlo ma è così, non mi piaceva per niente. Peccato. E invece no, nessun peccato (negli anni gli ho chiesto scusa tante volete e Michelangelo mi ha perdonato) e quella guida noiosa, la mia impreparazione culturale e l’ossessione per il piede porcello, sono state tutte una fortuna, mi hanno spinto a fare una cosa che non facevo mai: distrarmi.
Mi sono distratta, mi sono allontanata dal gruppo e mi ha subito chiamato lei, una splendida donna nuda dai setosi capelli sciolti, lo sguardo ammiccante e la pelle morbidissima. E calda. Quanta meraviglia! Sono rimasta incantata a esplorare ogni centimetro del suo corpo, richiamata continuamente da quegli occhi così vivi. Quegli occhi parlavano solo a me, mi stava guardando come io guardavo lei, la mia Venere.

A un certo punto fu il professore a farmi uscire dal mio stato di beatitudine, mi scosse fisicamente le spalle “Gonnelli, ma che ci fai qui? Siamo già tutti oltre la sala successiva, è un quarto d’ora che ti cerco!”. Un quarto d'ora?
Il mio primo rimprovero scolastico e il mio primo vero innamoramento artistico.
Che botta!
Pensai un sacco di cose, tipo:
1. “ma che cavolo mi è successo?" e subito dopo: "Che figata pazzesca!!!”.
2. “sono una cretina: non ho capito un tubo dell’Arte, non è solo un susseguirsi di nozioni tipo date e nomi di musei e opere”. E subito dopo mi assolsi dando mentalmente la colpa a quel pover’uomo del mio professore per non avermi aiutato a capire prima.
3. “questo Tiziano Vecellio sì che è un pittore, che armonia cromatica, che incredibile sfumato… altro che il rosa maiale ritagliato di Michelangelo!”. Beata gioventù… ve l’ho detto che ero saccente. Saccente ma anche molto curiosa. Passai il pomeriggio a studiare le pagine del libro che parlavano di questo autore sconosciuto (ancora non affrontato nel programma) e poi a scovarlo sulla nostra Treccani. Decisi che ne valeva la pena, avrei fatto di tutto per conoscere la Storia dell’Arte ed esplorare i musei, volevo riprovare a tutti i costi quella sensazione!
4. E mi chiesi: "Sarà contagiosa?" Magari! Mi sarebbe piaciuto un sacco infettare altre persone con la “sindrome di lalla”. Decisi che l’unico modo per farlo sarebbe stato diventare insegnante di Storia dell’Arte, un’insegnate diversa da quello che avevo avuto io. Ma pover’uomo! Era un bravo insegnante e io una stupida ragazzina (ma quanto sono spietati i giovani?!), ancora non so se sono alla sua altezza, ma ci provo ad attirare i miei studenti verso l'Arte e di certo quello che sono diventata e cerco di diventare ogni giorno, lo devo a quella prima meravigliosa volta in cui sono stata stregata dalla Venere d’Urbino.
Racconto spesso questo aneddoto anche ai ragazzi perché, effettivamente, mi ha cambiato la vita.
Poi è successo ancora, nei momenti più starni e con le opere e gli autori più disparati.
Mi è successo pochi anni dopo in una splendida mostra su Gustav Klimt a palazzo Strozzi, ci sono tornata tre volte e da allora il mio amore per Klimt è inesauribile.
Mi è successo nell’abside mosaicato della Basilica di San Vitale a Ravenna nel 1997. Mi sono proprio persa, disorientata, sentita dentro uno scrigno.
Lo stesso anno mi ha quasi fatto piangere il giovanile “Riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio alla Galleria Panphilj di Roma e nessuno mai potrà togliermi dalla testa che quello è il suo massimo capolavoro.
Mi è successo con Wassili Kandisky durante un viaggio a Barcellona nel 2003, non ero lì per vedere lui, ma al piano terra della casa Milà di Antonì Gaudì c’era una mostra gratuita sul suo periodo lirico (dopo aver pagato un salatissimo biglietto per vedere la Pedrera, la mostra è gratuita, che fai, non ci vai?). Dopo l’università ero un po’ meno saccente, ma avevo ancora dentro di me quel brutto pregiudizio delle persone che sanno disegnare bene con formazione accademica, nonostante i 9 esami di Storia dell’Arte, sottovalutavo l’Astrattismo. Che sventola mi presi! Dopo la seconda composizione fui completamente risucchiata dalla sua danza cromatica, cominciai a rimbalzare in superficie e in profondità, fino a precipitare magnetizzata soprattutto dal blu. C’avrei passato le ore, il mio compagno d’allora dovette praticamente trascinarmi fuori, quasi non parlavo più. Quanta bellezza, mi scoppiavano i sensi e allo stesso tempo si rilassavano.
Mi è successo nel 2004 con alcune tele di Vincent Van Gogh dopo aver raggiunto pedalando sotto la pioggia le sale deserte del Kroller Muller Museum in Olanda.
Nel 2007 mi ha catturato e sedotto il sinuoso “giovinetto di Mozia” (un figo assurdo, altro che rigidità dei Kourus!), un capolavoro quasi dimenticato, raggiungibile con una gita in barca verso l’antica colonia fenicia.
Mi è successo ancora nel 2008 alla Tate Britain di Londra, ero andata a vedere “l’Ophelia” di Millais (non l’ho mai vista, nel 2008 era in prestito e nel 2018 la sala era chiusa per una crepa) e sono stata rapita da “Garofano, giglio, giglio, rosa” di John Singer Sargent. Incredibile l’effetto cromatico dei fiori fluorescenti appena arriva il crepuscolo, ho una rosa in giardino che mi regala lo stesso tono cromatico per 5’ ogni sera d’estate e io con la mente posso tornare di nuovo a quel capolavoro.
Mi è successo con Pavel Filonov qualche anno fa (in una mostra a Palazzo Strozzi sull’arte Russa dove ero andata soprattutto a cercare Kandisky), poi nel 2019 sono andata a Mosca e a San Pietroburgo per salutare ed amare di nuovo entrambi.

Mi è successo nel 2015 con la meravigliosa “epopea slava” di Alfons Mucha a Praga (e anche František Kupka mi diede un bel colpo).

Nel 2017 ero andata alla pinacoteca di Brera soprattutto ad ammirare (tra le altre cose) la “Pala di Brera” di Piero della Francesca e “il Cristo morto” di Andrea Mantegna, entrambi grandiosi, ma sono stati i ferraresi a darmi il tormento e soprattutto “la madonna della candeletta” del Carlo Crivelli, che genio!

Mi è successo ancora tante (tantissime) volte e ogni volta è una sensazione incredibile.
Mi succede praticamente ogni volta che incontro una ragazza di Paul Gauguin, anche perché mi sono sempre ritenuta una di loro. Oppure ogni volta che ammiro una natura morta di Oscar Ghiglia, con quell’armonia assoluta e quei colori che cantano, quanta infinita grandezza in un autore così trascurato. Foquet, Pisanello, Beato Angelico, Lippi, Bellini, Ingres, Segantini, Klee, Boccioni, Carrà... ancora e ancora... sono davvero innumerevoli gli autori che amo e le cui opere mi hanno fatto sentire ricambiata.


Nel 2017 a NYC sono praticamente vissuta 6gg di fila sotto l’effetto della “sindrome di lalla” (l’Empire State Building, il Memorial del World Trade Center, il Guggenheim… il MOMA dove ho conosciuto Robert Rauschenberg!) penso che per una settimana sia stata l’unica reazione chimica a sostenere in vita il mio corpo nonostante il jet lag.
Assiri ed Egizi mi stregano con facilità. 
Talvolta entro in questo stato di beatitudine e stordimento all’interno di luoghi o architetture. Dopo che mi succede non riesco a smettere di parlarne, cerco notizie sull'autore, mi fisso, mi incuriosisco, studio. Vorrei spiegare con più chiarezza, perdonatemi, forse non ne sono capace. 
C’entra sicuramente anche col senso dell’autenticità, col fatto di trovarsi proprio in quel posto o lì davanti, a 20 cm dal quadro, dove è stato l’autore (ma che emozione!) e non potrebbe succedere consultando soltanto un libro. 
C’entra anche con l’effetto sorpresa, quasi sempre vado per vedere qualcosa e poi ne scopro un’altra (a parte che con “la battaglia di San Romano” di Paolo Uccello a Londra, ero andata proprio a vedere quella e ci sono quasi rimasta secca), ma non sapevo davvero chi fossero Tiziano, Filonov, Sargent & co. prima che, con uno dei loro capolavori, mi sdraiassero completamente.
C’entra, io credo, con l’essere emotivamente e cerebralmente in sintonia con quello che provava e trasmetteva l’artista nel momento della creazione. Voglio dire: ora come ora la “Venere d’Urbino” di Tiziano non mi procura più un tale shock perché sono io ad essere cambiata, non lei, la ammiro comunque con tutta me stessa, ma non sono più la lalla di 17 anni che l’ha amata la prima volta.
Pochi giorni fa l’ho provata di nuovo al museo Revoltella di Trieste, c’ero andata per vedere “il meriggio”, una delle mie opere preferite del grande Felice Casorati e dopo averlo ammirato (è davvero magico) gironzolavo un po’ stanca tra le opere delle altre sale. Ed ecco che improvvisamente arriva questa bambina spiritata a togliermi il respiro.
Ovviamente io, nella mia infinita ignoranza, non sapevo neanche chi fosse

Carl Frithjof Smith e non avevo mai sentito parlare del dipinto “dopo la prima comunione”.

Una visione straordinaria, quella faccia incredibile mi ha tenuta lì molti minuti, in ostaggio, guardandomi negli occhi e parlando solo a me. Cioè, anche la mia mamma ha ammirato il dipinto, ma nel mio caso è chiaro che si trattava di qualcosa di più, di qualcosa di patologico.
Alla fine del percorso non potevo ancora andarmene, così ho lasciato lei a riposarsi al piano terra e sono tornata di corsa al quarto piano per salutare la mia bambina per l’ultima volta. Le foto che le ho fatto non rendono l’idea, ma come potrebbero farlo? Quello che c’è stato tra me e lei è una cosa privata, comprensibile solo a me (e a chi la mia sindrome ce l’ha).
E se la mia una sindrome non fosse, ma solo una pazzia, non mi importa perché sarebbe una pazzia bella.

lalla