giovedì 25 febbraio 2021

perché non ho scelta

Io ogni tanto dipingo, mica sempre, ma ogni tanto sì.
Non vorrei farlo di più, anzi mi chiedo: ma chi me lo fa fare?
Dipingere non è l’attività rilassante, né tantomeno facile, che parecchi si figurano.
E chiariamolo subito: la difficoltà non sta nel sapere o meno disegnare. Io so disegnare molto bene, non è questo il problema e, per inciso, non è detto che il talento abbia molto a che fare col saper disegnare. In ogni caso, non voglio parlare di questo. Non mi interessa capire se sono o meno un’artista, né se sono o meno abbastanza “brava”.
Non è questo il punto.
Mi chiedo invece, se ne valga la pena. Vorrei cercare di capire perché lo faccio.
Dipingere è una guerra, decidere di iniziarla è una roba da pazzi. Sono pazza?
Perché non riempio le mie (rare) ore di solitudine con attività amene e rilassanti invece di partire in battaglia? Perché non mi godo la pace?
Ecco, forse il talento ha più a che vedere con una sensazione di disagio, con l’assenza di pace. Chi crea è costantemente insoddisfatto e in agitazione. Ora, io sarei una persona tranquilla e che adora il dolce far niente (e tutto torna: produco piuttosto poco), ma devo ammettere che sotto la biancana apparente, ribolle qualcosa. E va in accumulo, parte come una semplice increspatura dell’acqua, poi pian piano genera correnti e infine un bel gorgo. Quando il turbinio diventa una smania insopportabile, quando come dico io “mi pizzicano le mani”, non posso far altro che prendere (prima la Canon e poi) i pennelli e iniziare.
In realtà, non ho scelta, non ce l’ho mai avuta. 
Almeno, negli anni, sono riuscita a liberarmi quasi del tutto dai sensi di colpa. 
Perché i sensi di colpa? 
Perché la scomoda verità (e lo so che suona male) è che quando dipingo non me ne frega più niente di nulla e di nessuno. Siamo solo io e il mio lavoro, a combattere insieme. Non è mai facile far accettare a tutti gli altri (e neanche a me stessa) questo bisogno di chiuderli fuori. Ma lasciamo perdere anche questo concetto, per un attimo facciamo finta che sia giusto essere un po’ egoista, mi assolvo pensando che in fondo rubo solo pochi giorni nell’arco di un anno dedicato quasi esclusivamente a prendermi cura degli altri. 
In ogni caso, sapendo che sto partendo per il fronte, chi mi dà la forza di iniziare? 
Bè, lo faccio in uno stato di momentanea incoscienza (come se mi fossi dimenticata in cosa mi stia imbarcando), ma presto me lo ricordo, patisco e fatico. Arrivo sempre a un punto in cui penso di non farcela e mi maledico per non aver scelto di farmi una bella passeggiata e di mangiarmi un gelato.
Ma tengo duro (e sono ore, non minuti), proprio quando comincio a sentirmi anchilosata e dolorante (la pittura mi sfinisce), quando ormai non ci vedo più (in senso letterale), proprio allora, intravedo la possibilità di cavarmela. 
E allora non posso più mollare, chi se ne frega dei dolori: è troppo importante! 
Diventa tutto più semplice, comincio a condurre il quadro dove voglio io (o ad accettare il posto dove mi sta portando lui) e a percepire così il sapore della vittoria. È un sapore così dolce.

Quando il lavoro non è ancora terminato, già arriva l’appagamento e così ho il tempo di gustarmelo con calma, mentre lo rifinisco. 
Non potrei mai rinunciarci, sono ore di piacere fisico (non solo mentale) e sono certa che cambino oggettivamente l’equilibrio chimico delle sostanze in circolo nel mio corpo. Infatti, mi innamoro. Non del risultato vero e proprio (che può rivelarsi più o meno accattivante), ma delle ore di “tormento ed estasi” condivise insieme. Questo sentimento mi impedisce di staccarmi dai quadri che faccio per me, non potrei venderli (e comunque non è che ci sia proprio tutta ‘sta fila d’acquirenti!). Li tengo con me, li accarezzo, ci parlo. Solo di rado l’innamoramento si esaurisce dopo qualche mese, ma più soventemente diventa amore vero, persiste negli anni, per sempre. 
Io non cerco di trasmettere le mie emozioni nella pittura, io cerco di dipingere ciò che vedo, ma mi rendo conto che qualcosa ci finisce lo stesso. Alcuni piccoli pezzi di me si staccano e ci cadono dentro, ecco, alla fine questo sono i miei quadri: pezzettini di me che si sono staccati. Istantanee di quello che sono stata e ho provato io, in quelle ore, mentre li dipingevo. Però, con tutti questi “frammenti” ci sto tappezzando la casa! Mi rendo conto che prima o poi dovrò cercare di smaltirli o diventeranno una presenza troppo ingombrante per i miei poveri figli quando non ci sarò più (già lo sono io adesso, in vita). Lo saranno anche i miei scritti. Tanta, troppa lalla sto spargendo sulla terra. Dovrò cercare di salvarli da questa inquietante “semina di me stessa” che sto generando nel corso degli anni.
Ci penserò fra un po’ di tempo, mi concedo di continuare la propagazione ancora per un po’.
Un problema alla volta, oggi non mi sto chiedendo se abbia o meno un senso creare qualcosa, ma solo se meriti investirci così tanta fatica.
Il mondo è fatto di persone che creano e persone che distruggono, mi fa piacere pensare di appartenere alla prima categoria e mi assolve la consapevolezza che ogni cosa da me creata (per quanto orrenda possa essere) incontrerà un giorno il suo distruttore (in veste di tempo o di persona). Insomma, poco danno: non sto inquinando il mondo in modo irreversibile.
Ogni volta che termino un quadro (brutto o bello che sia, purché vero), mi sento finalmente in pace. Sono esausta e va bene così. Torno a una vita normale, torno a pensare ad altro (e agli altri).
Non so quanto durerà questa pace, a volte per mesi. So che prima o poi inizierà di nuovo a crearsi una corrente sotto la superficie. All’inizio farò finta di non averla notata e tenterò di nuotare in un'altra direzione (una direzione più comoda, sicura e confortevole). Rimanderò finché potrò, infine arriverà di nuovo il momento di combattere.
Non è il mio mestiere (non mi mantengo con questo), non è la mia missione (non sono molto originale e non lancio particolari messaggi all’Universo). 
E’ la mia esigenza, forse la mia follia, inevitabilmente, il mio destino.

Lalla

P.S. Da più di un anno a questa parte, il mondo si impegna per fare più schifo del solito, per questo ho bisogno di dipingere qualcosa di consolatorio. Ultimamente passo ore a indagare ogni curva e piega della mia Piccola Fata, ore intere a dialogare con la bellezza. In blu.
con il primo pannello de "la Bellezza", olio su masonite 50x35 cm

martedì 2 febbraio 2021

Caro babbo, guardiamo avanti

Caro babbo, questi giorni dell’anno sono particolari, sono i tuoi.
Noi facciamo finta di andare avanti come niente fosse, ma è appunto, solo una finta.
Oggi sei nato e tra circa 24 ore, sei morto. A qualcuno succede di nascere e morire negli stessi giorni dell’anno. Penso che sia una cosa molto giusta, in equilibrio, come chiudere un cerchio.
Il 2 febbraio 2016, quando nel letto hai detto: “che brutto compleanno”, non devi averla pensata così. Anche se, in effetti, questa frase per te non significava “che brutta fine”, bensì “il prossimo compleanno sarà migliore”. Hai sempre guardato avanti, nonostante l’evidenza. Babbo, non sai che anno di merda è stato il 2020, ci saresti voluto tu in questi mesi di pandemia, avresti pensato solo al dopo, solo al futuro.
Anche io guardo sempre avanti e ci provo a percorrere la direzione migliore, ma devo ammettere che ultimamente mi sento un po’ stanca.
Quello che mi manca è la tua sicurezza, tu, nel bene o nel male, eri sempre sicuro di avere ragione. Non avevi dubbi, non avevi ripensamenti. Eri sfacciatamente ottimista. Questi tratti li hai passati alle mie sorelle, non a me. Quanto invidio le persone sicure di sé! Quanto deve essere bello sentirsi sempre nel giusto, che grande senso di serenità. Io nel giusto mi ci sento (perché faccio di tutto per comportarmi dignitosamente) ma mi muovo sotto revisione continua (da parte mia), non me ne faccio passare una. Ripenso costantemente a tutte le scelte, pondero, confronto, soppeso ogni decisione.
La verità è che sono attanagliata dall’ansia da prestazione in qualsiasi cosa faccia. E’ la cosa a cui tengo di più: comportarmi nel modo giusto, fare del mio meglio, non danneggiare nessuno.
E’ un po’ stressante. Per questo sono stanca.
Anche tu eri una persona correttissima, ma eri anche un carro armato, a un certo punto mettevi il turbo e agli altri toccava spostarsi, c’era poco da fare.
In questo periodo il mio rapporto con la scuola mi preoccupa più del solito, sento ancora di più il peso dei miei studenti sulle spalle. Di solito, bene o male, come insegnate riesco ad assolvermi (non sarò perfetta, ma ce la metto tutta). Ma col coronavirus, da quasi un anno, viviamo didatticamente alla giornata. Abbiamo già provato 3 percentuali di distanza/presenza. E’ un continuo reinventarsi e non riesco a capire se e quanto sto facendo bene (o male). La didattica a distanza è diventata sempre di più una prova di resistenza: loro che spengono le telecamere e si ammosciano e io che cerco con ogni sforzo di tenerli vivi e farli reagire. Se non li fai lavorare, li perdi per strada, se li fai lavorare troppo, li sovraccarichi. La didattica in classe è diventata un casino: devo rendermi odiosa vigilando che rispettino le regole (anti-covid) e una mascherina mi impedisce di trasmettere le espressioni (e le emozioni) facciali. E’ tutto un linguaggio del resto del corpo e della voce, ma neanche facendo le piroette potrei compensare la mancanza del mio sorriso. Affronto le problematiche di sempre, ma con intensità e ostacoli triplicati… che fatica! In questi giorni abbiamo gli scrutini, giuro che mi sento stanca come fossero quelli di giugno, me lo dici tu adesso dove le raccatto le energie per portare avanti tutto il secondo quadrimestre?
E non solo, babbo... quando cavolo finirà? Quanti altri anni così dovremo sopportare? Io sono spaventata: ho paura di disamorarmi del mio mestiere.
Sai che un’altra attività per cui vado matta, oltre a cullarmi nell’ansia, è preoccuparmi.
Sono preoccupata per i tuoi nipoti, per forza, per il grande (che sembra enorme, ma ancora è un bambinone e mi sembra particolarmente cotto ultimamente) e per la piccola (che è fin troppo grande per la sua età e si è ritrovata per la prima volta a scuola in una scuola così, che non è certo come dovrebbe essere la scuola!).
Viviamo molto isolati da tutti (ore in classe a parte), anche questo non è un bene per loro. Spero che lo sia per la comunità. Cerco di trasmettergli senso civico, di resistenza, di coerenza. Sono tutte robe belle, ma impegnative. Almeno l’80% dei loro coetanei si incontra a giardini, festicciole e altro… ne sto facendo degli emarginati, ma forse lo sarebbero stati comunque, essendo figli miei.
Mi preoccupo anche per la mamma, che in questo isolamento prolungato e forzato, sente di più la tua mancanza. Quest’estate non siamo potute andare in viaggio, chissà se e quando potremo farlo di nuovo. In questi giorni si sta rimettendo a posto “il dente” dal dentista ed è parecchio acciaccata. Ti ricordi come eri birbone quando la prendevi in giro dicendoci: “vi rendete conto figlioli di quanto amo la mamma? Quando l’ho conosciuta avena “il dente” davanti nero e spezzato, ma a me sembrava bellissima lo stesso”. Lo dicevi sempre davanti a lei (per farti sentire) e lei protestava "ovvia Beppino", ma si struggeva perché era vero che l’avevi sempre amata e ti era sempre sembrata bellissima. Avevi quel modo un po’ strano di fare i complimenti, pensavi che anche io fossi bellissima e lo dicevi sempre alla mamma (con me nella stanza, per farmi sentire): “Lucia, ma quanto è bella la lalla? Ti somiglia così tanto, sembra te da ragazza!”. Anche io mi struggevo e così prendevi due piccioni con una fava. Io non lo so se somigliavo davvero alla mamma, mi sembrava di somigliare poco a te, in famiglia tutti la pensavamo così. Ma col passare del tempo mi rendo sempre più conto che non è vero.
Va bene, sono anche io una “caca-dubbi” (come appellavi poco carinamente la mamma), non ho certo la tua sicurezza e prepotenza, ok?
Ma so arrangiarmi e far di tutto con le mani come te, sono una cantastorie come te, sono una teatrante come te, sono soprattutto un’esibizionista, come te. E anche se ultimamente sono un po’ più stanca del solito, ho tanta voglia di vivere, come te. E tanta voglia di coinvolgere gli altri in una battuta, in un sorriso, in una danza.
Sai che non mi hai mai insegnato davvero a ballare? Sapevi fare un sacco di cose, ma avevi poca pazienza e eri un po' troppo geloso del tuo sapere per essere un buon insegnante. Peccato, io avrei imparato tutto volentieri da te.
Questo twist che ci siamo concessi al matrimonio di Guido è stato il nostro ultimo ballo insieme. Non mi avrai tramandato i passi, ma l'entusiasmo sì ed è ciò che conta, dico bene babbo?
Anche io ti somiglio!
Continuerò a ricordare il passato e a guardare avanti, questo momento passerà.
Buon compleanno.


lalla