lalla
"Tutto quello che verrà", olio su masonite, 60x60 cm, marzo 2024 |
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"Tutto quello che verrà", olio su masonite, 60x60 cm, marzo 2024 |
Che cosa strana l’inconscio, non trovi?
Nel mio caso spesso e volentieri lavora contro di me sostenendo simpatici sensi di colpa
e immancabili ansie da prestazione; stanotte pareva dello stesso avviso. Invece.
Come sai in questo periodo siamo di scrutini, quelli del primo quadrimestre e io
potrei concedermi di dormire se non fosse che ci sono già in ballo decisioni
importanti come la composizione delle commissioni (i miei studenti e le mie
studentesse mi fanno una corte spietata perché li porti all’esame, ma quest’anno,
non so se lo sai, anche tuo nipote Elia deve sostenere la maturità nella mia
scuola; diciamo che la situazione è più complicata del solito e dovunque mi volti
rischio di far danni e scontentare qualcuno). Tanti, tanti pensieri. A metà
nottata mi sono ritrovata con l’occhio pallato. I miei intorcinamenti cerebrali,
ti confesso, non ti riguardavano (ero così presa dai miei doveri di insegnante
e di mamma che mi stavo scordando quelli di figlia).
Ma per fortuna dopo un po’ mi
sono addormentata di nuovo e ho iniziato a sognare: un gruppo di persone
allegre, tipo quasi a braccetto, chi fossero non mi interessa, ma a due metri
da me e un po’ spostato sulla sinistra c’eri tu. Tu ancora vigoroso e forte, ma
non troppo in sovrappeso. Neanche troppo imbiancato, diciamo un tu cinquantenne, praticamente mio coetaneo.
Ti ho riconosciuto e mi sono sentita fortunatissima di poterti
incontrare di nuovo: “Che bello che sei venuto, era tanto tempo che non lo
facevi.” Anche tu mi hai riconosciuto e mi hai sorriso. Sapevo che era un sogno e sapevo anche che avevamo poco tempo a
disposizione così ti sono venuta subito incontro e ti ho abbracciato. Ho percepito fisicamente il nostro contatto (ed è strano, nei sogni di solito vedo
ciò che succede “da fuori” e non riesco ad utilizzare davvero i sensi). Invece
ho sentito la solidità del tuo corpo e, deliziosa, la tua barba sulla mia guancia.
Come allora, forse un pochino più dura di allora perché in effetti la tua era
molto soffice, ma l’ho sentita. Chiaramente. Ho fatto bene ad abbracciarti, è stata
una sensazione bellissima. Ma è durata solo un attimo, poi mi sono svegliata.
Se
avessimo avuto ancora un po’ di tempo, magari anche solo una frazione di secondo,
che nel sogno si sarebbe dilatata, avrei potuto raccontarti tante cose su di
noi e su quello che facciamo. Rassicurarti sul fatto che stiamo tutti bene e ricordarti
che devi aver fatto qualcosa di davvero buono se ancora oggi, dopo otto anni,
ti portiamo con noi. Forse avrei potuto utilizzare quel poco tempo che avevamo
per confessarti che la mamma ti guarda ancora con lo stesso sguardo, so che ti
avrebbe fatto piacere perché sei sempre stato un inguaribile romantico. Invece
no, non ho potuto fare a meno di essere egoista: avevo tanto bisogno dal tuo
abbraccio e me lo sono preso. Mi ha riempito di soddisfazione, ha sciolto
ogni nervosismo e tensione, ha riportato la mia mente alle cose belle e giuste.
È stato un dolcissimo modo di passare la giornata ogni tanto toccarmi la guancia
e ricordare quella carezza ispida. Grazie.
Grazie di essermi venuto a trovare proprio per
il tuo compleanno. Caro babbo, torna quando vuoi.
lalla
Quando sono in balia dei romanzi, scrivo sul blog più raramente; mi dispiace, ma evidentemente il mio cervellino dislessico desidera e può sopportare un carico massimo di letterine al giorno. Peccato, la prossima volta chiederò in dotazione un cervello più efficiente, ma per adesso tocca adattarsi.
Non ho più postato aggiornamenti sui miei romanzi, ma rimedio subito.
Il 3 ottobre sui social avevo scritto questo:
Non amo
stare ferma.
Sono sempre stata una persona che progetta e che fa. Progetti piccoli, progetti
grandi. Possibilmente portati fino in fondo perché odio lasciare le cose a
metà.
Come un libro che leggo, che magari un po’ non lo capisco e mi sta ricrescendo
in mano, ma che devo per forza finire, anche a costo di avanzare poche pagine per
volta. Perché magari sul finale poi si riprende, io che ne so?
Come per un film che vedo, che se mi fa già cagare dopo due minuti netti ce la
faccio a spengerlo, ma quando varco la soglia dei dieci ormai è fatta: mi tocca
arrivare fino in fondo. Almeno per capire gli autori dove volessero andare a
parare. Che un filmuccio un può spento può sempre nascondere un messaggio, una
svolta, ribaltare la situazione e recuperare negli ultimi minuti. O forse rimanere
“uccio”, ma spingermi in ogni caso a una riflessione, a un pensiero. Insomma:
lasciarmi qualcosa.
Quando accade… perché accade, credetemi, che sorpresa e che soddisfazione
immensa!
Tante cose della vita, anche le più leggere o inaspettate, spingono a riflettere
o lasciano qualcosa, purché si sia abbastanza curiosi e disposti ad aprire la
mente. Se non ci credete, provate a guardarvi intorno con più attenzione o ad
arrivare in fondo alle cose per scoprirlo. Anche a quelle che non capite alla
prima perché sarebbe un peccato desiderare che tutto fosse semplice e dare
giudizi affrettati.
Dicevamo: quando accade, è una sorpresa e una soddisfazione immensa.
Ora, per film, libri o mostre che andiamo a visitare, non è davvero merito
nostro ciò che accadrà. L’unico merito è appunto essere spettatori onesti e
aperti. Creano altri, scrivono altri, a noi non resta che fruirne e saper
cogliere una possibilità.
Creano altri, scrivono altri, ma mica sempre.
Io un po’ di cose le faccio. Ne ho sempre fatte e sempre ne farò. Perché appunto
non riesco a stare ferma; la mia mente, le mie mani, non ce la fanno proprio. Progetti
piccoli, progetti grandi, progetti enormi. Non è una passeggiata portarli tutti
in fondo. No, per niente. Ma non posso fare altro, non è una scelta quella di
creare, solo chi nasce irrequieto come me lo sa: è una necessità. Con la
sottile speranza, lo confesso, di riuscire anche io a regalare ogni tanto quell’effetto
di sorpresa e soddisfazione. Così a casaccio, a gente sconosciuta. Che se
davvero ogni tanto ce la facessi, in una vita, non sarebbe mica poco, eh?
E’ tutta l’estate che penso a un nuovo progetto pittorico, per adesso il quadro
danza nella mia testa, spero di trovare presto la forza di fargli prendere una
forma terrena. Come sempre, inizierò a dipingere solo quando davvero sentirò di
aver bisogno di dipingere. Al momento giusto, non un minuto prima, né uno dopo.
La pittura non è uno scherzo per me, è una cosa seria. Non la faccio per denaro,
né per il piacere altrui. Non è prostituzione. Non è fatta solo di masonite e
colori a olio, è fatta delle mie sensazioni e dei mei pensieri. Chiaramente può
non incontrare il gusto altrui, ma almeno è sincera e mia.
Prima o poi spero di riuscire a riassume il mio lavoro in una mostra e di darle
il nome REALISMO INTIMO perché è quello di cui parla: la mia realtà. Niente di
più, niente di meno.
Vedi? Un altro enorme progetto… non riesco proprio a stare ferma!
Intanto scrivo molto.
Anche i libri sono progetti enormi, che richiedono mesi e mesi di lavoro. E
tanto coraggio.
Quando crei qualcosa, diventa la tua vita stessa, lo ami e lo odi. Lo temi.
Temi di non essere capace di farlo arrivare con te dove volevi effettivamente andare.
Temi che ti trascini via, lontano, che prenda il sopravvento. Quanta fatica nel
tentativo di dominarlo. Che sia un quadro, che sia un libro, che sia un post
come questo. Che non si perda il senso, è importante. Ma anche che non si
capisca subito, a una prima occhiata distratta, che pretenda un po’ di interesse
sincero da parte dello spettatore e del lettore. Che riesca a catturare, a portare.
Non credo che nessuno di noi (gli irrequieti che non sanno stare fermi, quelli
che hanno bisogno di progettare e di fare, quelli che creano) che nessuno di
noi, possa mai sapere se alla fine ce l’ha fatta davvero. Il creatore è
condannato all’incertezza e alla perenne insoddisfazione. E’ condannato a
provarci e può solo sperare di poter regalare al fruitore quella scintilla di
sorpresa e soddisfazione.
Solo questo mi viene concesso e solo a questo posso appellarmi nei momenti di
fatica, vergogna, ripensamento, autostima a terra e paura: solo alla speranza.
E magari neanche a quella perché se la perdo non è che cambi molto. Ve lo
confesso in piena sincerità: pure se fossi certa che quello che faccio fa schifo a tutto il mondo, io al mondo chiederei scusa, mi dispiace (un giorno ci
penseranno altri a bruciare i miei quadri, strappare i miei libri e cancellare
questo blog), ma io non potrei comunque fare a meno di progettare, fare e
arrivare fino in fondo ancora una volta.
lalla
P.S. Che il mondo lo desideri oppure no, la mia “Saga dei Colori” va avanti; la prima bozza del mio terzo libro, “Giallo Cristina”, è quasi terminata.
Tante
persone sono profondamente egoiste (e deboli), io non ho mai voluto essere come
gli altri.
Però detto così non è del tutto vero: io non ce l’ho mai fatta a essere come
gli altri, non ho mai potuto. Non potevo già alle elementari, figuriamoci
adesso.
Ognuno ha la sua natura. Voglio dire: da un certo punto di vista, ma beati
quelli che se la spassano!
Io non obbligo me stessa a stare sempre attenta e a prendermi cura degli altri,
lo faccio e basta, perché sono fatta così. Ho bisogno di cercare di fare sempre
la cosa giusta per tutti. Il ché è abbastanza impossibile, ma comunque devo
provarci. E ho perennemente paura di sbagliare, di turbare il resto del mondo,
di disturbarlo. Io sono un essere disturbante, lo sono sempre stata. Socialmente
strana, disomogenea.
La mia disomogeneità mi regala il dono di essere incompresa. Così le
persone, anche quelle che mi apprezzano, non mi vedono mai per quella che sono, mi fraintendono, non mi
capiscono. Posso risultare invadente e inadeguata. Probabilmente lo sono. Esibizionista?
Sicuramente lo sono. Basta che una sola persona mi faccia notare quanto io sia stonata per essere ferita, anche
con uno sguardo o una sola parola, anche da chi non conta nulla.
Perché, tra le tante, sono pure ipersensibile e se sapeste quanto fa male...
ma poi mi rialzo e me ne vado dritta (e sola) per la mia strada perché sono pure
fiera della mia diversità (e perché in fondo non potrei fare altrimenti).
Per fare questa vita fuori dagli schemi dovrei essere più forte di quella che
sono, ma forse questa forza non esiste. Forse nessuno lo è.
Forse nessuno può procedere dritto (e solo) per il mondo senza vacillare ogni
tanto.
Ma prima che forte, e prima di ogni altra cosa, desidero essere sincera. Non
posso esserlo ogni giorno con le persone che mi fraintendono e che si aspettano
altro da me. Per loro io sono (e devo essere) quella forte e premurosa, quella disponibile.
Quella che sorride sempre.
In verità, non sempre. Ogni tanto mi sento un po’ mesta e sola. Ma questo non
posso dirlo a nessuno perché nessuno vuole sentirselo dire da me. Ma almeno a
me stessa posso dirlo. E posso ascoltarmi.
Detesto il contatto fisico con gli sconosciuti, ma adoro coccolare le persone
che amo. Mio figlio ormai è un gigante, eppure ancora non si scansa del tutto
se ogni tanto lo abbraccio. Mia figlia mi stringe forte quando lo faccio, ogni
giorno. Più volte al giorno.
Ma entrambi stanno crescendo e (è bene che io me lo ricordi sempre) non sono su
questa terra per me, devono esserlo per loro stessi. Sono io ad averceli messi
e sono io a prendermi cura di loro. Un giorno se ne andranno entrambi, così come
se ne vanno i miei studenti e tutte le persone di cui mi prendo cura.
Va bene così, razionalmente sono convinta di poter bastare a me stessa, che il
mio valore di essere umano non dipenda dall’avere accanto una persona e, a
dirla tutta, neanche da aver messo al mondo la mia prole.
Ma ogni tanto vacillo. Sono gli ormoni, quelle merde!
Ogni tanto devo ammettere con me stessa che mi gratificherebbe molto piacere a
qualcuno che non fosse geneticamente obbligato a farlo. Ogni tanto mi chiedo quanto possa essere bello
essere visti per quello che si è veramente e piacere lo stesso.
State tutti
fingendo o a qualcuno succede davvero?
Quanto è bello? Raccontatemelo, voi che potete. Voi che sapete chiedere e prendere, oltre che dare.
Sappiate che anche alla mia pelle (e alla mia anima) piacerebbe essere toccate e carezzate. Io non
mi scanserei mai, non l’ho mai fatto. Eppure, nella mia vita, in così pochi mi
hanno accarezzato. Perché mi hanno sempre frainteso, perché nessuno si è mai reso
conto di quanto ne avessi bisogno.
Di quanto, oltre ad amare, mi piaccia essere amata.
lalla
P.S. non c’è da preoccuparsi, è solo la primavera, presto gli ormoni si arrenderanno e io tornerò stoicamente padrona della mia vita. Nell'attesa, come sempre ci ha pensato la mia migliore amica a darmi ciò di cui avevo bisogno.
Caro babbo, ormai dal 2016 questa settimana è strana e in essa succedono cose strane. Ogni anno provo a festeggiare più la tua nascita che commemorare la tua morte, ma le due date sono così vicine… di fatto si sono trasformate in un unico lunghissimo giorno.
Questo 2 febbraio avresti compiuto ottant’anni, un bel
compleanno importante, se non fosse che da sette anni non ne festeggi più. Ma te
l’ho detto, ci provo io a farlo per te.
Ogni anno arrivo a questa settimana (che è anche la prima di scrutini) più
stanca e stressata, ma in mezzo alle miriadi di cose a cui stare dietro,
giovedì (che era il mio giorno libero a scuola) ho imbastito di portare i
figlioli a sciare alla Doganaccia. Una roba rilassante tipo tre ore di auto per
tre ore di sci.
Ma stattene a casa a rassettare che è meglio! Questo, come noto, il meno
possibile.
Ho pensato che fosse una cosa romantica far salire Matilde sugli sci per la
prima volta proprio per il tuo compleanno ricordando le splendide settimane
bianche che mi hai regalato da ragazza.
Però sono partita un po’ prevenuta. Conosco Matilde e immaginavo scenari di
tregenda (tipo vomito a spruzzo stile Esorcista nei tornati sopra Pistoia e scenate
di disperazione e odio feroce verso di me nei primi tentativi sugli sci). Conosco
anche me stessa e sapevo di essere davvero molto stanca, temevo di non trovare tutta la pazienza necessaria per accompagnare la novella Compagnoni. Di
non saper reggere bene la giornata e quelle seguenti. Insomma, di fare qualche cazzata.
E infatti tranquillo che la prima l’ho fatta subito: dopo una mezz'oretta di macchina
mi sono resa conto di aver preso solo il mio documento e non quello dei figli…
e se poi me lo chiedessero per lo skipass?
Alle 8:20 ho girato il culo della Multipla sui viali fiorentini completamente
tappati dal traffico e mi è presa una specie di crisi di nervi. Ero convinta di
perdere l’intera mattinata (e quindi l’intera giornata) nel tentativo di tornare
a casa e ripartire. Ero incazzatissima con me stessa e col mio cervello
fallace.
Accidenti a me che non riesco mai a tenere tutto sotto controllo!
Ma “tutto” è tanto davvero, credimi. Il lavoro, la famiglia, la casa… la
gestione e l’organizzazione di ogni singolo impegno è sulle mie spalle. Solo
sulle mie. Sempre.
A questo giro, mettiamoci anche la gatta in procinto di partorire e che da
mercoledì sera miagolava insistentemente. Non è una novizia, ma ero preoccupata
e prima di partire l’ho chiusa in bagno con tutto l’occorrente augurandole
buona fortuna.
Insomma, scusami se ogni tanto mi perdo per strada qualche pezzo, poi lo
recupero. Anche tu ne perdevi, sai? Anche se non lo volevi mai ammettere.
Torniamo a giovedì, urlo e mi dispero in auto (con la Matilde che ha già
cominciato a vomitare prima ancora di aver lasciato il centro città), ma riesco
a recuperare i documenti e ritornare sul tracciato perdendo “soli” quarantacinque
minuti.
All’arrivo a Cutigliano eravamo in tempo per la funivia delle 10:30, dai, non andava
così male… e quindi la macchinetta del parcheggio, tanto per ristabilire un po’
di incazzatura, ha pensato bene di fregarmi dodici euro, maledetta stronza!
Chissenefrega: arrivati in cima, c’erano un sole splendido e una neve da
favola.
La giornata è poi proseguita come previsto, poca pazienza mia, crisi di nervi e
rabbia della piccola comprese. L’ho trainata per ore sul camposcuola con le mie
mani, sciando a spazzaneve al contrario e tutto sommato così non andava malaccio.
Poi le ho preso un’ora il maestro per sbloccarla (e concedermi almeno due rosse
fatte nella direzione giusta e ad alta velocità), ma quello le ha fatto battere
una bella musata e dopo si rifiutava ancora di più. A quel punto non sono riuscita
a mantenere la calma e quando si impuntava urlandomi contro, anche io le ho
risposto male. Dopo mi sono sentita terribilmente in colpa. Poi mi sono ricordata
di te che prendevi la Chiara a racchettate in testa perché si era bloccata su
un “muro” (in seguito si scoprì che aveva pure la polmonite, poverina). Eppure ti
consideriamo un bravo babbo lo stesso.
Insomma, forse anche i miei figli mi perdoneranno di aver sclerato un pochino qualche
volta. Ci spero.
Mi consola anche che alla fine della giornata al Piccola Fata abbia accettato
di tornare l’anno prossimo (probabilmente più allettata dagli scivoloni sulla
neve e dalla polenta fritta con ragù del rifugio, che dalle piste).
In tutto questo, Elia si è divertito molto e posso giurarti che, aspettandolo alla
fine di un curvone della splendida pista Faggio di Maria (che vista c’era dal
cucuzzolo!), l’ho guardato sciare e mi sono commossa: mi sembrava di vedere te.
In questi quattro anni senza salire sugli sci il suo corpo è cambiato, è diventato
grande e grosso e ora curva “di potenza” restando rigido come un legno, proprio
come facevi tu.
L’ultima pista me la sono fatta da sola pochi minuti prima che chiudessero gli
impianti, ho lasciato la prole a giocare su un monte di neve e l’ho discesa tutta
di fila. Me la sono mangiata. Sono passati così tanti anni da quando ci portavi
sulle Dolomiti e io non sono certo una sportiva, ma scio ancora come una volta.
Ad un certo punto il tracciato spianava leggermente, mi sono messa dritta con
le mani aperte per percepire tutta la velocità, ho guardato il cielo, la luce
che filtrava tra gli alberi, la neve, ho ascoltato il silenzio e ti ho augurato
buon compleanno.
Ti confesso che il giorno 3 pensavo di non riuscire a muovere un muscolo,
invece guarda, ho ancora un discreto fisichino perché mi sono alzata piuttosto
pimpante (nota bene che tua nipote di otto anni era piena di acido lattico).
Ma insomma, quello passa, invece la gatta era ormai oltre il termine, si
lamentava e non era riuscita ancora a partorire un bel niente e su quel fronte
ero davvero preoccupatissima.
Ma era venerdì e c'erano inesorabili impegni scolastici, quindi a malincuore l’ho
rinchiusa di nuovo in bagno e sono andata a fare lezione; intanto ho chiamato
il veterinario e mi sono accordata per portargliela alle 15.30 se ancora non fossero
nati. Alle 14.15 sono tornata da scuola e ho passato un’ora insieme alla gatta sul
pavimento del bagno accarezzandola, massaggiandola e sperando che riuscisse finalmente
a partorire. Ma lei poverina soffriva molto e mi guadava facendo le fusa e miagolando
come per dire: “Fai qualcosa tu”.
E io che altro potevo fare? Alle 15.30 l’ho affidata al veterinario (lui le ha
fatto una puntura d’ossitocina e mi ha detto che se non avesse partorito entro
le 17.00, l’avrebbe operata) e io sono corsa a fare gli scrutini.
Alle 18.30 sono tornata a prenderla, anzi, a prenderli. Ho messo nel trasportino
la mia povera Daenerys squartata, deprivata degli organi riproduttivi e completamente
inerte (ancora sotto l’effetto dell’anestesia) e in una scatola di cartone
piena di cotone tre piccoli micetti bianchi.
Il dottore mi ha detto che potevo provare ad allattare i piccoli con una
siringa e di tenerli al caldo nella scatola magari accanto al termosifone (ma
quello mica sta aperto tutta la notte!). Mi ha anche detto che avrei potuto provare
ad attaccarli alla mamma la mattina seguente, non prima perché altrimenti così
incosciente li avrebbe schiacciati.
“I cuccioli posso portarli nel letto con me, così li tengo al caldo?”
“Ma sono minuscoli, anche lei potrebbe schiacciarli!”
Bravo questo dottore, ma un po’ fissato con lo schiacciamento, non è che mi
metto a rotolarmi come una scema con tre topini di dieci centimetri sotto le
coperte e comunque avevo intenzione di tenerli accanto a me in una cestina.
Una volta arrivata a casa per fortuna ero sola (i figlioli erano dal padre). Ho
messo la scatola con i cuccioli sul termosifone e ho sistemato la gatta in una
cesta. Giuro, così rigida e fredda, faceva paura. Uno dei gattini era arrabbiatissimo,
aveva molta fame e cercava di arrampicarsi fuori dalla scatola, ma in compenso
la mia proposta di abbeverarsi dalla siringa lo ha fatto incazzare ancora di
più. La femminuccia era più tranquilla e metà siringa l’ha ciucciata. L’altro
maschietto era quasi morto, freddino e inerme, non era proprio possibile nutrirlo
così e mi sono resa conto che al giorno dopo non ci sarebbe arrivato mai. E
forse, neppure gli altri. Tenerlo nella mia mano boccheggiante mi ha dato un
senso di capogiro, l’idea di lasciarlo morire così, per inedia, mi ha disgustato.
Ho preso una decisione: dovevo subito tentare di far attaccare i gattini alle
mammelle di Daenerys (anche per sviluppare la lattazione e fargli prendere il
suo odore). Potevo manovrare io la situazione per tutta la notte, tra una “poppata”
e l’altra li avrei tenuti al caldo nel mio letto. Non avrei potuto sostituirmi
a mamma gatta, ma dovevo almeno provare a darle una mano. Provare a fare
qualcosa. Dormire in certi casi, è un bidogno trascurabile. D’altronde, sette anni fa passammo
la stessa notte al tuo capezzale. Ho provato ad accompagnare loro verso la vita
con la stessa dedizione con cui accompagnammo te verso la morte.
Io sono fallibile, è vero, ma anche molto determinata: ho passato la nottata
come previsto e cioè sveglia sul pavimento del bagno oppure sveglia nel mio
letto e nessuno è stato schiacciato da nessuno, sia chiaro. Il più vivace si è attaccato in due secondi,
la femminuccia ha penato un pochino di più (era anche un po’ sazia); a forza di
massaggini e di inserirgli un capezzolo a forza in bocca, verso le 4.00 anche quello
morticino è riuscito a poppare (sostenendogli la testa) e, alle 7:00, anche senza
sostegno.
La gatta ha iniziato ed essere davvero vigile al mattino di sabato 4 e ha preso a leccarli,
così alle 10:00 glieli ho affidati sperando in bene; mi sono fatta una doccia e
sono salita in auto per venire a San Giovenale e ricordarti insieme al resto
della famiglia.
Guidando in autostrada da sola mi sono commossa di nuovo. Mi succede qualche
volta tra il casello di Firenze sud e quello di Incisa perché per tutto il
liceo e l’università abbiamo percorso quel tratto di strada insieme, ogni mattina
e ogni sera, io nel posto del passeggero e tu alla guida.
Spesso ti ricordo così, col volante in mano. Le chiacchierate (e le litigate) che
facevamo, io e te zitti praticamente mai. E ricordo perfettamente la sensazione
di stare seduta su quel seggiolino completamente rilassata, perché in verità io
mi fidavo ciecamente di te. Anche se guidavi in modo un po’ troppo aggressivo
andando sotto al culo delle auto prima di sorpassarle. Anche se sospettavo che non
rispettassi la distanza di sicurezza, ma sarebbe stato chiedere troppo. D'altronde, ritenendoti infallibile e
immortale, era chiaro che il pensiero di poter commettere un errore o di non poter reagire in
tempo a quello di un altro, non ti sfiorasse neppure. Ti è andata
sempre bene, in auto.
Però babbo, come purtroppo la storia ci insegna, anche tu non eri immortale.
Eppure, in un certo senso lo eri e lo sei. O meglio, lo sarai finché anche io
vivrò.
Fino ad allora non preoccuparti: ci penserò io a portarti con me su
quell’autostrada, come per tanti anni hai fatto tu.
lalla
P.S. Oggi è il 5 e i gattini sono ancora vivi, non so se Daenerys riuscirà a prendersi cura di loro oppure se presto si sdegnerà e deciderà di abbandonarli alla morte. Sarebbe comprensibile dato che soffre molto durante l’allattamento, ma io spero che resista e che loro se la cavino. Lo spero per lei che è sempre stata un’ottima mamma e che così potrà godersi i suoi ultimi cuccioli fino allo svezzamento. E lo spero per te che sei nato e morto in questi stessi giorni. Se quei piccoli animaletti possiedono anche solo la metà della tua voglia di vivere, ce la faranno e per questo portano tutti il tuo nome: Beppe, Beppino e Giuseppina (detta Giusy).
In Arte, la prima allegoria del sesso arriva a metà
del Cinquecento a Firenze con Agnolo Bronzino. Venere e Cupido
si baciano e si toccano lascivamente davanti ai nostri occhi. Intanto si
ingannano: l’una cerca di sottrarre una freccia dalla faretra del
figlio, l’altro di rubare la tiara della madre. Maschere teatrali ammiccano al
travestimento, al risveglio dei sensi, all’interpretazione di ruoli. Il Tempo (con
la sua clessidra) incornicia con un drappo la scena e ricorda il mutare delle
sensazioni e il degenerare delle emozioni. Le allegorie della Gioia (un bimbo
con i sonagli alle caviglie e dei fiori destinati ad appassire presto), della
Gelosia, della Follia, circondano i due protagonisti. La virtuosissima tecnica
di Agnolo (fatta di linee curve, superfici levigate e colori smaltati) indugia
sui corpi sinuosi, sui glutei sodi, sui volti perfetti e su ogni raffinatissimo
dettaglio. L’opera oggi si trova a Londra e posso confermare che tanto stile e bellezza dal vivo sono ipnotiche. Il sesso è spiegato e raccontato (in
modo intellettualistico per l’utenza ristretta della corte medicea) come qualcosa
di delizioso, ma pericoloso: un piacere temporaneo e ingannevole, che può
portare alla rovina e alla disperazione. Periodo difficile il Manierismo, ansie
da prestazione artistiche, crisi religiosa e politica, gente un po’ ripiegata
su sé stessa e poco allegra.
«Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni
misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava
esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da
penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta
voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata.
Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse
la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio.» (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13)