mercoledì 13 febbraio 2019

la mia pittura: tra idea, battaglia e un certo taglio di fusilli

Vorrei parlarvi della pittura. Vorrei spiegarvi cosa mi fa provare. Vorrei raccontarvi il perché non potrei fare a meno di dipingere e, allo stesso tempo, il perché non potrei farlo più spesso di quanto già non faccia (e cioè relativamente di rado). Vorrei farlo perché è un argomento che mi interessa molto, ma è anche tanto difficile da affrontare e non lo so se ce la farò.
 
IL DISEGNO
Comincerò parlando del Disegno perchè tutta la mia storia è iniziata così. Sono stata una specie di bambina-disadattata-disegnatrice-prodigio.
Il Disegno (e in seguito la scultura, poi la pittura e la scrittura) sono sempre state un’esigenza e mi hanno accompagnato per tutta la vita. Senza di loro, non sono io. Infiliamoci anche la curiosa osservazione e interrogazione del mondo, la rielaborazione di tutto questo e il racconto orale (continuo) a persone e cose, e il quadro è completo: sono io. 

Ogni tanto ho deciso che fosse il momento di dedicarmi ad altro e che per un po' di tempo sarei potuta stare senza disegnare, ma non ce l'ho mai fatta troppo a lungo.
Dopo il primo anno di Università di Architettura passato solo a studiare, ero in crisi di astinenza da Disegno e così mi iscrissi anche alla Scuola Internazionale di Fumetti (non allo scopo di diventare fumettista, ma per trovare una scusa che mi consentisse di disegnare almeno due mattine a settimana senza provare sensi di colpa). Insomma, un giorno venne a farci lezione un tipo (sarà stato un fumettista, sinceramente non ricordo né il nome, né la faccia). Era arrivato in classe per parlarci del Disegno e per prima cosa, tanto per rompere il ghiaccio, chiese: “Allora, qualcuno di voi vuol provare a spiegare cosa significhi per lui 'saper disegnare'?”. Tutti zitti. “Suvvia, senza paura...”
Secondo voi chi sarà stata la bischera a provarci, così, senza paura?
Un’ingenua lalla diciottenne mise insieme tutto il suo coraggio e tentò di parlare della cosa a cui teneva di più nella vita: “Ecco… secondo me saper disegnare significa non fare nessuna fatica, non è una questione di tecnica, quando io guardo il foglio bianco già immagino il disegno finito, ce lo vedo sopra come vorrei che fosse, quindi quando inizio a disegnare è come se in realtà iniziassi a “ripassare” ciò che esiste già nella mia mente, per questo quando disegno una donna mi sento tranquilla e posso partire da un piede o da una mano senza sbagliare le proporzioni, perché so già come sarà l’insieme una volta finito”.
Diciotto anni, mica male. E il tipo? Sapete cosa mi rispose, davanti a tutti?
“Ma senti questa! Te che ti sei fumata prima di venire in classe?”
Alla faccia del “suvvia, senza paura…”. Mi sentii molto stupida e ridicola. Tutti i miei compagni scoppiarono a ridere e nessuno provò a difendermi (neanche il mio compagno di banco nonché attuale ex-marito). Facile così: umiliare uno studente e portarsi tutto il resto della classe dalla propria parte! Potreste pensare che il tipo volesse solo fare una battuta e che io sia una persona permalosa. E’ sicuro che io lo sia, peccato che quello non fosse per niente il momento di scherzare per me (che avevo cercato di fidarmi, di aprire il mio cuore e di essere sincera). Che persona meschina, come ho già detto non mi ricordo niente di lui, tranne il tipo di insegnante che dimostrò di essere e a cui cercherò di non assomigliare mai. Chiudiamo il capitolo persone-da-dimenticare e torniamo a ciò che ci interessa.
Il Disegno è tutto: osservazione, interrogazione, rielaborazione, infine sintesi spontanea di ogni tua percezione e restituzione grafica. Insomma io sono come un filtro della realtà, anzi, come uno stampo per la pasta, mi arriva una massa enorme e indefinita di informazioni e sensazioni, da fuori e da dentro, e io potrei trafilarla in tagliatelle o maccheroni, ma quello che esce da me è un taglio tutto speciale, né corta, né lunga, è un tipo di fusillo solo mio. E può piacere a chi la mangia, o può disgustare, ma questo infondo non mi importa. Va bene comunque perché è un taglio sincero, non c’è niente di costruito. Questa è una cosa che avevo già capito dopo il Liceo Artistico (ed è per questo che non mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti): tutto questo non lo si può insegnare e non lo si può imparare, tutto questo lo si è o non lo si è, e basta. Certo, un buon maestro può correggere, indirizzare e far migliorare. La tecnica in effetti si può (e si deve) imparare, ma il talento no, non è proprio possibile.
Eccoci male: ho pronunciato una delle parole proibite: “talento” (l’altra è “artista”).
“Ma chi si crede di essere, crede di avere talento? Crede di averne abbastanza? Crede di averne più degli altri?”.
Non importa, se vi disturba tanto, la ritiro subito. A dire il vero, questo argomento non mi interessa, ve l’ho detto: il piatto di pasta potrà piacervi o meno e siete liberi di non tornare al mio ristorante.
Non è questa la questione, non è il risultato che mi interessa, mi interessa il mentre, il durante e quello che sento, quindi adesso mi concentro e provo a spiegarmi di nuovo.


IL PROCESSO CREATIVO
Allora, dipingere non è solo trafilare i tagliolini, dipingere è anche una specie di combattimento, insieme (e contro) se stessi e il proprio quadro.
Io sono soprattutto una ritrattista, quindi proviamo a parlare di ritratti.
Prima di tutto, mi piacerebbe sempre essere io a scegliere il soggetto, è lui (anzi, quasi sempre lei) ad attrarmi e a farmi desiderare di ritrarlo. Poi, in posa per giorni non ci vuol stare più nessuno, quindi mi servo di foto. Ma non si tratta della roba squallida che state pensando, non mi servo di foto scattate da altri al mare e col sole negli occhi (non sarebbe proprio possibile), le foto le faccio io e questo passo è fondamentale, fa già parte del ritrarre. Ho bisogno di scegliere l’illuminazione e di stare un’oretta col mio soggetto, di guardarlo da ogni angolazione, di girarci intorno come una leonessa con la sua preda, di parlarci e vedere come reagisce, di comprendere e rubare le sue espressioni.
A questo punto, ciao, può tornarsene alla sua vita e lasciarmi da sola, a studiare il materiale fotografico. Ci vuole del tempo, metto insieme più scatti, cerco una composizione che mi soddisfi. Se la trovo, si passa al terzo passo (il disegno), altrimenti si ricomincia dalla Canon.
Facciamo che è andato tutto bene, ho a disposizione il materiale giusto, e passiamo alla terza fase.
Se so di dover colorare a olio, io (che adoro disegnare) non disegno quasi per niente, non sento alcun bisogno di tracciare una base netta o un chiaroscuro preciso (tanto nella mia testa so già come verrà), faccio uno schizzo bruttino e tirato via: ho troppa voglia di passare alla fase quattro e sporcarmi con i colori!
Eccomi, invasa da un’esigenza crescente, che apro con foga i tubetti mezzi seccati, riverso velocemente un bel po’ di colore sulla mia tavolozza incrostata e rianimo i pennelli spampanati con un po’ di diluente vegetale (quasi sempre mi ritrovo con i materiali in cattivo stato, ma ormai è troppo tardi per poter rimediare: quando è arrivato il momento non posso più rimandare, devo procedere, quindi mi arrangio con quello che trovo). Diretta sulla masonite, mi immergo subito nel centro del conflitto, tutta la partita si gioca qui: negli occhi. Come il grande Klimt ci insegna, tutto il resto può anche scomparire nell’indefinitezza (il corpo, le proporzioni, lo sfondo), niente è importante davvero in un ritratto, eccetto lo sguardo. Vado avanti, poi ci ritorno, guardo il mio soggetto, lo scruto, cerco di affondarci dentro, guardo il mio quadro, poi di nuovo il soggetto, di nuovo negli occhi, poi la bocca, il volto, modulo l’espressione, di nuovo lo sguardo… è un processo completamente assorbente (sono del tutto rapita, non ho fame, non ho sonno). A questo punto di solito forze maggiori (per esempio i miei impegni di madre, insegnante o anche solo di persona fisica) mi costringono a staccarmi dalla pittura e dover interrompere quando proprio io non vorrei, ciò è causa di profonde frustrazioni. E oltre a questo, c’è sempre un terribile momento in cui mi rendo conto che sto perdendo la mia battaglia e che il quadro sta andando in una direzione diversa, dove io non vorrei. Sono attimi di puro terrore e disperazione. Ma se resisto e vado ancora avanti, posso farcela, posso riprendere in mano la situazione, quando ce la fo, quando finalmente sento di avere di nuovo il controllo, guardo il mio quadro ed è come se guardassi il soggetto stesso, potrei parlarci se volessi (e di solito, infatti, comincio a farlo). Quando capisco di aver realizzato fisicamente l’idea che avevo in testa, mi sento felice. Insieme sopraggiungono la soddisfazione e un primo sentore di stanchezza, ma ho ancora voglia di concludere, sono ancora spinta in avanti, euforica (perché intravedo il traguardo e ormai so di poterlo raggiungere) procedo e arrivo fino alla fine. Fino a quando la spinta si esaurisce e l’esigenza si placa. Il quadro è finito. Io mi sento fisicamente esausta e psicologicamente svuotata (infatti non ce la faccio a mettere a posto ed ecco perché il mio materiale, quando poi mi servirà di nuovo, farà schifo).
Mi rilasso e finalmente sto benissimo, per giorni parlo col mio quadro e lo accarezzo (con lo sguardo e con le dita).
E’ tutto molto inteso, ma davvero troppo forte per desiderare di provarlo subito e di nuovo.
Ho il resto della mia vita da vivere (non ho intenzione di immolarla all’arte), desidero pensare e dedicarmi anche ad altro. Una volta concluso il mio quadro tutto ciò è possibile, senza patimenti, né rinunce. Passa del tempo, a volte alcuni mesi, nei quali vivo serena e tranquilla. Ma non è mai per sempre, prima o poi tutto questo torna a chiamarmi, le mani iniziano a pizzicarmi e il desiderio rinasce: è il momento di intraprendere una nuova battaglia!
IL NON-FINITO
Tante gente mi dice: “i tuoi quadri sono più belli a metà, lasciali non-finiti”.
Ammesso che possa davvero interessare a qualcuno che i miei quadri siano "più belli", proverò a spiegare perché non lo faccio, perché arrivo fino infondo, fino a quando mi spinge il desiderio di andare. I miei quadri non-finiti non sarebbero più belli, sarebbero solo più ruffiani.
E’ più facile far piacere qualcosa che non è finito, la non definitezza lascia spazio all’immaginazione del fruitore dell’opera. Tanti pittori giocano su questo (lo ha fatto anche Annigoni), io no, grazie. Mi dispiace ripetermi, ma in sostanza: “a chi non piace questa minestra, può buttarsi dalla finestra” o (meno drammaticamente) cambiare ristorante.
Capiamoci, abbiamo detto che l’arte è una sfida. Prendiamo Michelangelo, lui lo aveva capito, sapeva che ogni sua opera era una battaglia ed è vissuto col preciso intento di vincerle tutte. Si era formato in ambiente neoplatonico, quindi da ragazzo spiegava: “nel pezzo di pietra esiste già l’opera d’arte, esiste l’idea (neoplatonica e perfetta), io devo solo riuscire a liberarla da quel blocco di materia che la opprime, devo togliere tutto il superfluo e farla uscire fuori”.
Ecco, adesso che lo sto citando mi rendo conto di quanto la mia spiegazione giovanile del “saper disegnare” fosse simile a quella michelangiolesca del “saper scolpire”. Non ci avevo mai fatto caso, si tratta in ogni caso di cercare di realizzare fisicamente un’idea che la tua mente già conosce… ecco, questo ribadisce quanto fosse coglione quel tipo alla scuola di fumetti, probabilmente avrebbe dato del drogato anche a Michelangelo se l’avesse incontrato da giovane (magari: lui non si sarebbe sentito ridicolo, gli avrebbe rotto il naso!).
Ora, tutto si può dire, tranne mettere in dubbio l’infinito talento di Michelangelo. Lui sapeva di possederlo, aveva un ego più grande della Sistina stessa (e meno male o non avrebbe mai trovato il coraggio di intraprendere e portare a compimento opere tanto sovrumane). Da giovane, la sua autostima era altissima e la sua convinzione intatta, un esempio: una volta conclusa la Pietà romana era tanto convinto di aver raggiunto l’idea (la perfezione) da investire la Madonna di una fascia (tipo Miss Italia) con la sua firma sopra. Maturando, ogni sua convinzione iniziò a vacillare ed è proprio da questa incertezza, dal timore di non aver più la forza e la sfrontatezza necessarie per raggiungere la vera idea (la perfezione) che nacque il suo non-finito. Da vecchio, nell’ultima Pietà milanese, la consapevolezza di non potere (e soprattutto di non volere) raggiungere più niente di perfetto, il desiderio impellente di esprimere tutte le paure e le incertezze dell’uomo prossimo alla morte, lo portò a “distruggere” fisicamente la propria opera, disfare e fondere i corpi in un ultimo e esile abbraccio finale, in un ultimo e grandioso capolavoro. Il non-finito michelangiolesco è paragonabile a certe coeve pitture di sacrifici e pietà dell’ultimo Tiziano (guarda caso, vicino alla fine, gli artisti prediligono sempre certi temi). Mi vengono in mente anche altri epiloghi artistici, come le “pitture nere” della Quinta del Sordo di Goya o gli ultimi Klee. I grandi della St.Arte (quelli che obiettivamente avevano un talento mostruoso) hanno percepito in sé la scintilla della creazione, per un certo periodo si sono sentiti invincibili divinità e hanno alimentato il loro ego gigantesco, ma sono stati anche persone dalla grande sensibilità, si sono posti enormi domande e, nel tentativo di trovare delle risposte, hanno finito per mettere in discussione, smontare e distruggere ogni propria certezza. Questa parabola non li ha resi meno grandi, né meno divini. Ma è, appunto, una parabola, e bisogna essere Michelangelo per poterla percorrere. Bisogna essere in grado di dipingere l’incredibile campionario di perfetti nudi maschili in scorcio nella volta della Sistina, prima di permettersi il lusso di sproporzionare volutamente il torso del Cristo giudice nella parete del Giudizio Universale. Bisogna saper infondere tutta l’energia vitale al David e concluderne ogni singolo dettaglio anatomico, prima di lasciare non-finiti i propri Prigioni. Bisogna arrivare a toccare la divina perfezione dell’idea rinascimentale, prima di concedersi la libertà di poterla distruggere.
Io non sono Michelangelo, io non ho una briciola del suo talento e della sua foga creativa, io non aspiro alla perfezione (non l’ho mai fatto), non potrei proprio farlo (neanche volendo) e quindi, per adesso, non cercherò neanche di distruggerla. Cercherò solo di portare avanti le mie pitture (e ogni altro tipo di espressione artistica) non assecondando nessuna moda o richiesta esterna, ma esclusivamente il mio istinto. Fino a quando ne avrò la forza. Fino a quando ne avrò la voglia. Non una pennellata, né una parola oltre il mio desiderio. Poi basta.

E che nessuno se ne disperi, sono certa che nel ristorante accanto, per modici prezzi, continueranno a servirvi ottime lasagne. 

lalla

 
P.S. Rileggendo questo post in cerca di “orrori ortografici” mi sono accorta che la mia descrizione del processo creativo è molto simile a quella di un atto erotico, quindi, oltre che per drogata, potrei passare anche per maniaca sessuale. Ma forse è normale che i due processi si somiglino in termini di desiderio, urgenza, istinto e sensazioni, infondo, si tratta pur sempre di creazione.
"Sofia con orchidee", olio su masonite, 41,5x46,5 cm.

giovedì 7 febbraio 2019

Caro babbo, tra le tante, tre cose

Caro babbo, non considerarmi una figlia ingrata perché al cimitero non ci vengo.
Abbi pazienza, non condivido l’amore foscoliano per i sepolcri e non ho bisogno di una tomba per ravvivare la nostra “corrispondenza d’amorosi sensi”.
Sorprende soprattutto me quanto questa corrispondenza sia viva, tutto l’anno e non solo i primi giorni di febbraio perché neanche delle ricorrenze ho bisogno, il mio cervello si ricollega a te in ordine sparso e casuale, ma con un ritmo piuttosto costante.
Sai che Silvia è nata 3 giorni prima di te (a dire il vero 26 anni dopo, ma sul calendario 3 giorni prima), per questo motivo abbiamo sempre festeggiato il vostro compleanno insieme. Ecco, tante volte ti fossero venuti dei dubbi, volevo farti sapere che io continuo a fare lo stesso, imperterrita.
A questo proposito, tre cose vorrei raccontarti.
 

La prima.
Questo compleanno è stato davvero bello, tutti insieme alla maniera Beppini, come sarebbe piaciuto a te. Nell’esatto momento in cui Silvia spegneva le sue 50 candeline (non ce l’ha fatta mica, sai? Erano una selva!) mi è venuto di pensare che meraviglioso regalo sia stata lei per te. Ho immaginato come ti devi essere sentito orgoglioso ed emozionato, in quel tuo ventiseiesimo compleanno, un giovanotto con la barbetta ancora scura e la figura affilata, stringendo tra le braccia la tua prima figlia. Una meraviglia, vero? E’ stato un pensiero stupendo, mi ha fatto tantissimo piacere e così l’ho detto subito alla mia sorella grande. Forse anche a lei ha fatto piacere, invece la mamma si è riempita di malinconia e mi dispiace, non era quello il mio intento. Io quel giorno coltivavo solo pensieri lieti e voglia di festeggiare. Anche te.
 

La seconda.
Dopo il pranzo e tante chiacchiere abbiamo giocato a yahtzee. Era tantissimo tempo che non ci giocavamo più.
Te la ricordi quell’estate che avevamo preso l’abitudine, nel pomeriggio, di giocare a yahtzee in barca, promettendo di tuffarci se ci fossero venuti 5 dadi uguali? E tu c’avevi pure il mal di schiena, ma con il tuo solito culo ovviamente facesti il punto e tutto sovreccitato ti buttasti in mare come un ragazzino impazzito??? (che, diciamocelo, competizione a parte, se ti avessimo pregato in ginocchio di buttarti a stomaco pieno per fare una nuotata con noi, non avresti accettato manco morto).
Tornando all’atro giorno, partitina insulsa, giocatori inesperti, punteggi bassi, non ti sei perso niente. Poi però, a un certo punto, tiro e mi vengono quattro 3 e io, posso giurartelo, ti sento. Hai presente il potere della suggestione e dell’auto persuasione? Funzionano alla grande! (le religioni c’hanno fondato degli imperi). Il nostro cervello e i nostri sensi sono birboni, ingannano.
Ti ho sentito lì con me è ti ho sussurrato: “non ti va babbo di fare un bello yahtzee? Ci starebbe proprio bene, no?”. Ho tirato il quinto dato e se mi avessero chiesto di scommetterci una gamba, io l’avrei fatto, perché ero certa al 100% che il 3 sarebbe uscito. Che magia!
E così infine, anche per quest’anno, io e te abbiamo festeggiato il tuo compleanno insieme.
   

La terza.
Torniamo alla storia della “corrispondenza d’amorosi sensi”, vorrei parlartene meglio perchè mi stupisce moltissimo.
Ogni tanto, così dal nulla, mi ricordo un tuo proverbio. Assaggio un cibo piuttosto disgustoso e penso che forse a te sarebbe piaciuto (“quel che non ammazza ingrassa”), oppure ne mangio un altro che a me piace da morire e ricordo quanto tu lo disprezzassi (tipo il riso al pomodoro). Mi viene in mente una litigata o un errore grosso che hai fatto tu (o che ho fatto io). Mi ricordo uno sguardo d'intesa che ci siamo scambiati, una frase a metà, le tante cose che ci siamo detti, le battute e le grullate che piacevano a entrambi e anche le sere dove davamo spettacolo (sei sempre stato l’anima della festa e un po’ lo sono anch’io). Ricordo le infinite e terribili partite a carte fatte in studio o al mare (“quando il cul la ragion contrasta, vince il cul che la ragion non basta!”)…
L’altra settimana a Firenze nevicava e una studentessa mi stava raccontando di aver avuto difficoltà a raggiungere la scuola e che l'aveva accompagnata suo padre, d'un tratto mi è tornato in mente un giorno che mi stavi accompagnando al liceo, la neve la sera si era sciolta, ma poi la strada di notte era ghiacciata, non è che mi è arrivato un ricordo vago, ma proprio la sensazione perfetta di quell’istante: stare seduti in auto accanto, mentre prendevamo le curve al Montanino e tu che mi dici “ieri nevicava e siamo stati a casa, ma la strada era sgombra, è peggio oggi, il fondo non è sicuro” e invece io in auto con te mi sono sempre sentita sicurissima, tanta era l’abitudine e la fiducia, e con te al volante c’avrei valicato le Alpi a cuor leggero durante una tormenta (ci sapevi fare davvero, anche se adesso mi rendo conto che, da bravo maschio Alfa, ti mettevi un po' troppo sotto le auto prima di sorpassare). 


Insomma, questo fenomeno della rimembranza è davvero potente e sorprendente.
Io, babbo, te lo dico con sincerità, il giorno che ti ho salutato non potevo sapere che ci sarebbe stata, così forte e così a lungo. Sono la custode della nostra memoria e, senza alcuno sforzo, senza impegno e in modo completamente spontaneo, in un certo senso, ti sto tenendo vivo. Direi che questa cosa è anche parecchio consolante. Cioè, cavolo, un giorno anche io morirò, ma è troppo carino pensare che i miei figli, e magari anche altre persone che mi hanno conosciuto, ogni tanto si ricorderanno di me. Magari anche di quanto gli rompevo le scatole, di una cosa che gli ho insegnato, di una bischerata che gli ho detto, di come sorridevo o mi arrabbiavo. Certo, dopo due generazioni, quando moriranno anche i miei figli (e i miei nipoti, se ci saranno) suppongo che nessuno si ricorderà più di me, ma chi se ne frega: tanto quelli manco li conosco, tanto vale che loro non conoscano me!
N.B. Per questo “diventerò una pittrice famosissima e i miei quadri mi terranno in vita per sempre nella memoria collettiva” oltreché improbabile, non mi è mai sembrata un'opzione particolarmente allettante.
Ma torniamo a noi, non sei contento di sapere che non te ne sei andato davvero, non ancora e non per noi? Dico “noi” perché sono quasi matematicamente certa di non essere la sola Beppina a provare questo. Siamo in tanti a trattenerti ancora per un po' su questa terra. Parecchio ganzo, vero? E tu ne eri cosciente, lo sapevi che avresti lasciato un’impronta così forte? Non sei sorpreso? Te l’aspettavi?
Io spero di sì, perché se te lo aspettavi vuol dire che siamo stati bravi.
E che tu lo sei stato con noi.


lalla
una foto mossa del 2004, in barca, dove si grulleggia