martedì 29 agosto 2017

New York City

Molte persone mi hanno chiesto di scrivere un post sul mio viaggio a NYC, ci provo. Però vi avverto: son quegli atti masochistici tipo quando negli anni '90 qualcuno (non si sa bene animato da quale proposito) chiedeva agli amici "ci fate vedere il filmino delle vacanze" e così la serata svoltava (in tragedia) che al 5' di girato traballante e spiegoni da parte dell'improvvisato cameraman ti montava il mal di testa e avresti voluto tagliarti le vene pensando che sarebbe durato almeno altri 40 minuti... vabbè, io non sto lì a guardarvi e voi non dovete far finta di divertirvi, semmai fatevi un giro da qualche altra parte, nessuno se ne offenderà.

UN'ESPLORATRICE, ANZI DUE
Va detto che io proprio adoro viaggiare, sono curiosa, un'esploratrice nata, geneticamente progettata per assaggiare nuovi sapori e ammirare nuovi colori. E la cosa buffa è che, io che non vado in palestra manco se mi ci portano in collo, a piedi, esplorando, non mi stanco mai, avrei voglia di andare sempre dieci metri più avanti, girare ancora un altro angolo e scoprire cosa c'è dall'altra parte. Non solo, sono un'organizzatrice perfetta, un'agenzia di viaggi fatta e finita (mi diverto da morire!) e così mi godo il viaggio anche prima di partire. E per di più sono una fotografa assatanata e mi garba un sacco riguardare le foto anche dopo. Perciò alla fine un viaggio di una settimana io me lo godo prima, durante e dopo, all'infinito e per sempre.
Viaggiare in coppia è il massimo, ridere, commentare, meravigliarsi insieme delle scoperte non vale doppio, ma triplo ... e qui nasce il problema.
Come viandante è chiaro che io non sia accoppiabile al 99,99% della popolazione umana vivente perché quasi tutti viaggiano cercando il modo di sentirsi ancora a casa, storgono facilmente il naso se ogni cosa non è come desiderano, si stancano presto, vogliono oziare in un hotel comodo (con molte stelle e poco carattere) e perdere ogni giorno preziosissime ore per rimbellettarsi e altrettante con le gambe sotto un tavolo in un ristorante "di classe" (dal gusto geograficamente anonimo)... ma che palle! Io voglio dormire in un appartamento e farmi la spesa da sola, mescolarmi ai locali, mettermi abiti comodi, buttarmi alla scoperta e, quando sento un po' di fame e di stanchezza, gustarmi un panino (tipico del luogo) su una panchina o stendermi su un prato con gli occhi alle architetture, alla natura, al cielo. Patisco da morire se vengo "limitata", allo stesso modo non è giusto che imponga agli altri un tour de force indesiderato... alla fine, l'ho constatato negli anni e durante svariati tentativi,  è facile che qualcuno si senta parecchio scomodo e che quel qualcuno sia io perché sono troppo mansueta e accondiscendente. Non sto dicendo che sbagliano i villeggianti comodosi, la ricetta giusta non esiste, ma mi sento di dire questo: scegliete con oculatezza i vostri compagni di viaggio, pensateci bene prima di partire con degli amici perché potreste rincasare standovi altamente sul culo.
Tornando a me, come si risolve il problema che mi piace viaggiare in compagnia, ma sono geneticamente incompatibile col 99,99% dei compagni di viaggio? Sono condannata a viaggiare da sola?

A luglio la soluzione giusta l'ho trovata proprio nella parola "genetica", la mia mamma (con cui non casualmente condivido il 50% del DNA) è un'esploratrice più accanita di me! Non è stato facile convincerla, diceva di aver paura di tutto, del volo, del viaggio, degli americani... così ho dovuto giocare sporco:" O.K., hai ragione, a me fa piacere se vieni, ma non venire se non te la senti, io vado comunque... vorrà dire che tua figlia se ne andrà in America tutta da sola". Che bastarda che sono! (ma era a fin di bene).
Pochi giorni prima di partire era proprio impanicata: "Mi hai messo in una situazione terribile. Mi fai fare una cosa più grande di me!" e mio fratello: "vacci piano, non me l'ammazzare la mamma, mi raccomando".
Altro che cosa più grande di lei e andarci piano! Una volta in viaggio, mi toccava insistere per fare una pausa e alla fine la spuntava lei al suono di "Tu ci puoi tornare, ma io no: sono troppo vecchia, voglio vedere il più possibile! Adesso o mai più!"
In definitiva, ci siamo divertite come bambine e questa piccola avventura, che spero essere solo una delle tante che faremo insieme, non la dimenticheremo mai, rimarrà nostra all'infinito e per sempre.
FUNZIONA
Era la prima volta che ero obbligata a stare lontana dai bambini per molti giorni di seguito, non volevo e non dovevo stare in casa ad aspettarli e autocommiserarmi. Ho pensato: "devo trovare il modo di distrarmi" e mi è venuta in mente NYC. Lei ha collaborato alla grande, è stata una grassa grossa distrazione, per me e anche per la mia mamma, grazie grande mela! Al nostro ritorno la mia temeraria compagna di viaggio mi ha detto: "ma lo sai che ti dico? Non è poi tanto lontana New York, ovviamente abbiamo da vedere anche un sacco di altri posti, ma potremmo anche tornarci una volta, se ci va!". Ecco, così mi piaci mamma, molto molto meglio.

 
IL VOLO
Prima cosa, dal caro 2016 non ho più paura di volare. Si chiama "terapia d'urto" e funziona, infatti non soffro più neanche di vertigini, non ho più paura di dormire da sola, non ho più paura dei ragni, degli aghi e delle lame, non ho più paura di niente (tranne che possa succedere qualcosa di brutto ai miei figli).
Secondo, andata Alitalia Firenze-Roma/Roma-NYC e ritorno Airfrance NYC-Paris/Paris-Firenze, spontaneamente viene di fare un confronto.
Alitalia sta fallendo e mi dispiace però, detto tra noi, non si presenta molto bene. La prima hostess era il ritratto della depressione, con una camicina sdrucita mezza infilata nella gonna e mezza fuori, ci ha accolti masticando vistosamente una gomma (americana) e non ha manco fatto i versetti con le braccia per illustrare come comportarsi se precipitasse l'aereo. Cioè, sono versetti inutili, si sa, se si precipita si muore, ma insomma almeno provaci, dacci un minimo di speranza, comunque, poraccia, magari le avevano appena comunicato la data del licenziamento. A Fiumicino ci hanno chiusi in cabina, già incinturati e pronti a partire, e sequestrati un'ora e mezza così, senza notizie certe, il comandante (parimenti depresso) ogni tanto mugolava all'altoparlante: "Non so che dire, davvero, non ci dicono cosa fare dalla torre di controllo... bo... potremmo tardare 5' come 5h, mi dispiace... non so che dirvi, davvero...". Una volta decollati per NYC siamo state torturare da dei cuscini duri come la pietra (inasportabili) che ci procurano dolori assurdi, ondate di calore africano e freddo polare, schermi video micragnosi con una definizione da far invidia agli anni '70 (il peggiore filmato rubato da un adolescente al cinema e postato su you-tube è certamente meglio) e cuffie con audio che un po' funziona, un po' no, a scatti, ma non a ritmo.
Airfrance tutta un'altra storia, personale elegante e sorridente, posti comodi e attrezzature multimediali all'avanguardia, ironico balletto inziale di hostess très chic per illustrare le procedure di salvataggio.
Italia-Francia 0-1.
Sul cibo, invece, pari.
Il cibo in aereo è un'esperienza che mi piace tanto, ogni volta lo aspetto con ansia, non perché sia buono (per carità!), ma perché è troppo buffo! Arriva tutto inscatolato singolarmente, in quel vassoio c'è più plastica e pellicola che materiale biodegradabile. Quanto mi piace sollevare le varie plastichine appannate o sbirciare sotto le stagnole incandescenti per meravigliarmi ogni volta di come ciascuna pietanza possa compattarsi e assumere sembianze geometriche (in questo viaggio ho scoperto un cerchio/prosciutto cotto raggio 2 cm, cubetti/patate 1cmq e un parallelepipedo/torta di mele 3x3x2). Mentre gustavo il mio pasto di solidi variamente disposti nello spazio, mi è venuto di pensare che in quel momento stavo girando intorno alla terra a 11.000 km di altitudine. Cioè, si può dire, ero un po' a mezza strada tra i terrestri e gli astronauti, ebbene, la mia alimentazione era perfettamente adeguata alla situazione.
IL JET LAG
Una premessa, in Italia, a Firenze, in casa mia, per adeguarmi al cambio dell'ora legale mi ci vogliono circa 20 giorni di vita da zombie, a primavera mi aggiro con gli occhi appiccicati e in autunno ho sempre una voragine nello stomaco, una sola ora di scarto, 20gg... poi mi abituo.
Ora, oltre a svariati triliardi di litri di oceano, anche 6h di fuso orario ci dividono da NYC e io ho passato in città solo 6 giorni e 15 ore. Benvenuto jet lag!
Avete presente come vi siete sentiti ogni primo giorno dell'anno della vostra vita dopo una notte di bagordi nella quale siete andati a letto, per l'appunto, circa 6h dopo il vostro orario abituale? Un po' è così, c'è poco da fare, per lo meno i primi 2-3gg, poi miracolosamente ti abitui (più in fretta che a primavera), ma dopo altri 3gg è il momento di ripartire!
Va detto che noi non abbiamo forzato per niente, ci svegliavamo verso le 5.00/6.00 del mattino, poco male, facevamo colazione, la doccia, la spesa (in USA sono aperti 24 ore su 24) e alle 7,00/8.00 (con l'aria ancora fresca) eravamo pronte per partire all'esplorazione. Alle 20.30 "svenivamo" nel letto (tranne due volte che siamo uscite a vedere le luci della città e a fare le ore piccole (le 22.30!).
Nel volo di rientro non c'è modo di dormire, dura 2h di meno (perché la terra ti viene incontro) e ben 6h te le mangia il cambio di fuso orario, in poche parole ti sparisce una nottata intera. Alle 9.05 del mattino, perfettamente in orario e perfettamente insonni, siamo atterrate a Peretola. Il tempo per una doccia e alle 11,05, con l'occhio pallato, mi sono presentata davanti al Comitato di Valutazione per sostenere l'esame dell'anno di prova per il passaggio (ritorno) alle superiori. Ho parlato a macchinetta, sarò apparsa un po' schizzata, ma nonostante la logorrea mi hanno fatto molti complimenti, soprattutto la Preside, e
lasciata presto andare a casa a fare sogni d'oro, alle due del pomeriggio.
LA RIMEMBRANZA?
Per chi è nerd come me, andare per la prima volta a New York è come tornare a casa. L'ho studiata e desiderata così tante volte nei libri di arte e nelle sale cinematografiche... camminarci in mezzo è stato un trip assoluto! Posso chiamarla rimembranza? Probabilmente non è la parola giusta, ma non la trovo quella giusta, non saprei come altro definire quella sensazione incredibile che si prova nel vedere dal vivo, finalmente, per la prima volta, qualcosa che già ammiri e un po’ conosci perché l'hai già vista nei libri o su uno schermo. In qualsiasi modo si chiami, è meraviglioso.
Discendendo la dolce spirale del Guggenheim quasi in preda alla sindrome di Stendhal, mi sono ritrovata davanti agli schizzi di Pollock e ai dipinti di Modigliani, Braque… kandinsky e, prima di lasciarmi rapire dallo "spirituale nell'arte", ho sobbalzato di emozione al pensiero di trovarmi nella stessa posizione identica rispetto al quadro dove si sono trovati loro. Al MET ho incontrato la volitiva Gertrude, al MOMA le rosee demoiselles e così ho fatto pace con Picasso. Un'indigestione di arte…
mangiando un (deliziosissimo) panino col lobster seduta in Madison square mi sono sentita la Sirena a Manhattan che divorava a morsi il suo crostaceo con tanto di carapace, davanti ad un incredulo Tom Hanks. Conversando davanti alle collezioni egizie del Metropolitan mi sono sentita Billy Cristal (ma non credo che mia mamma si sia sentita Meg Ryan). Andando alla deriva su una barchetta a remi nel lago di Central Park mi sono sentita Giselle e ogni tanto mi guardavo attorno aspettandomi che arrivasse un'intera banda e che iniziasse a cantare "che fai per dirle ti amo?". Attraversando a piedi il ponte di Brooklyn ho accarezzato i suoi cavi in trazione e mi sono sentita potente. Sulla cima dell'Empire State Building mi sono sentita uno degli Avengers, forte e impavida, in cima al mondo e davvero invincibile. Poi, da lassù, ho visto svettare in mezzo al financial district il "One World Trade Center" e per un attimo mi si sono riempiti di nuovo gli occhi con le immagini di quegli aerei assassini. Il terrorismo, forse questa è la sua vera forza, grazie ai nostri media, ha saputo produrre immagini più potenti e ammalianti di qualsiasi performance artistica e più accecanti e sorprendenti di qualsiasi kolossal holliwoodiano. Loro sanno usare davvero gli effetti speciali e generare gloriosi spettacoli di morte che si imprimono per sempre nelle menti, intrappolandoci nel terrore. Maledetti, ma io non ci sto al vostro gioco! Ho sentito molta malinconia rivedendo quelle immagini, ma nessun brivido, anche se ero lassù, perché io, ricordatevelo, non ho più paura.
LA STRABILIANTE ACCOZZAGLIA
Lo so che suona poco originale, ma la cosa che più mi ha affascinato di New York è l'architettura. Nel senso specifico, non tanto la fiera bellezza dei singoli grattaceli (basterebbe anche solo il Chrysler), ma la loro, come dire, strabiliante accozzaglia. La città non è stata costruita in un giorno, ma in più di un secolo e (per fortuna) si vede. Non è bella perché possiede i grattacieli più moderni, alti e scintillanti (se li tenga pure Dubai), è bella perché possiede quelli neoclassici, neogotici, liberty e Decò, anzi, è bellissima perché li possiede tutti (dal più antico e ricamato Flatiron del 1902 a quelli avveniristici in costruzione ancora oggi). E le case "antiche" e "basse" di mattoncini (come quella dove abitavamo noi), con le scale antincendio in bella vista... tutto mescolato, con altezze diverse, materiali diversi, decori diversi, stili diversi e, soprattutto, un incredibile coraggio. Ne è venuto fuori un capolavoro e, più o meno consapevolmente, anche la più sincera dichiarazione di che cosa significhi questa città e di chi siano i suoi abitanti. Loro sono così in tutto: nel modo di vestire (anche se lì, diciamocelo, l'accozzaglia gli dona un po' di meno), nel modo di mangiare (ho trovato un panino denominato "italiano" farcito con mozzarella, pomodoro, prosciutto, salame e mortadella, tutto insieme!) e nell'aspetto, non esiste "l'americano medio", per lo meno non a NYC, esiste un'umanità molto varia, un insieme di forme, dimensioni, pettinature, stili, colori e tratti somatici del tutto distinti. Tutti diversi e accozzati, tutti coraggiosi e fieri, tutti newyorchesi. 
 
 
 
LE COSE STRANE CHE NON TI ASPETTI
Ore e ore a fare convincimento a mia madre che le metropolitane son posti sicuri, belli e funzionali (vedi quella di Parigi e Londra) e invece, accidenti a loro, la metropolitana di NYC fa schifo! E' bruttina, sporca e perfino mal funzionante (corse che spariscono nei weekend, dipendenti disinformati e scocciati, cartelli piuttosto casuali) e con sbalzi di temperatura più assurdi che sul volo Alitalia (40° nelle stazioni e meno di 20° in treno). Ecco, io credo che sia perché la metropolitana la prendono le persone con poca disponibilità economica e i turisti. E' molto triste che le persone con poca disponibilità economica siano poco considerate, ma per il resto va bene così: NYC è dei newyorchesi e per i newyorchesi, non è dei turisti e per i turisti. Il fatto è che loro non hanno bisogno dei nostri soldi, non hanno bisogno di svendersi. I turisti nella migliore delle ipotesi non servono a niente, nella peggiore disturbano. La città se ne va avanti autentica e fiera, per i fatti suoi, senza arruffianarsi e con poche indicazioni, perciò se volete spiarla, potete farlo, ma sappiatelo: non siete stati invitati e dovrete arrangiarvi.
Per esempio, esiste un bar sul tetto di un Hotel, il bar si chiama "top of the Strand", ma non è segnalato in alcun modo e l'hotel si chiama diversamente perciò trovarlo è stata una scommessa. Ci siamo vestite eleganti e con un po' di faccia tosta abbiamo chiesto indicazioni ad alcuni hotel e alla fine ci siamo presentate in quello giusto, abbiamo chiesto se era possibile salire, sono stati gentilissimi e lassù c'è il paradiso. Ci siamo sedute proprio di fronte allo spettacolo che eravamo venute a vedere e ci hanno servito un cocktail squisito. Era l'ora del tramonto, il cielo ha virato di colore dal rosato all’azzurro intenso, poi pian piano si è spento, lasciando la scena a un altro attore, a un solo isolato da noi, l'enorme Empire State Building si è acceso di una meravigliosa luce blu. E quella luce stavolta non era né per i newyorchesi, né per i turisti, quella luce era per me.
Per strada, ogni tre per due, partiva una sirena, tanto spaccona che ti saresti aspettata di veder passare l'auto dei Ghostbusters, invece quasi sempre passava un glorioso e altrettanto scintillante camion dei pompieri. Mia mamma commentava ogni volta, sempre più incredula: “Ancora? Ma è possibile? Dove vanno?” e poi sentenziava, tipo Obelix: “Sono pazzi questi americani”. In effetti, mai visto il fumo di un incendio in una settimana, ma abbiamo perso il conto delle corse strombettanti, non so, mi è venuto di pensare che forse questa, il giro alla statua della libertà, little Italy e Time Square siano davvero le uniche messe in scena per i turisti che si concedono di fare.
Giravano camion splendidi, non solo quello dei pompieri, con musi tondi, colori sgargianti e ruote enormi. Splendidi davvero, la mia mamma li adorava e me li ha fatti fotografare di continuo.
Non è vero che le Nike costano 14 dollari, costano 140 dollari, quelle brutte e scontate, costano più che in Italia. Costa tutto tanto a NYC, figurati se ti regalano le Nike. No, niente, ci tenevo a dirlo tanto per ribadire che ho fatto bene a partire senza la valigia e a non perdere tempo nello shopping. Per inciso, la marca sportiva prende il suo nome dalla Dea greca Nike "vittoria" (in greco, e in italiano, si pronuncerebbe proprio "niche"), ma agli americani la pronuncia greca non viene naturale e così le chiamano "naichi". E' bene esserne consapevoli, siamo solo noi italiani a chiamare le scarpe "naik" perché ci garba far finta di sapere l'inglese.

Potete pagare di tutto con la carta di credito. Potete entrare alle 6.00 del mattino in un fornitissimo, enormissimo e freddissimo supermercato, acquistare anche solo un pacchetto di gomme (americane) e pagarlo con la carta di credito. Potete farlo, nessuno ci farà caso più di tanto o avrà da ridire.

Esistono altissime probabilità che in una mia vita precedente io abbia calzato infradito d’oro zecchino nell’antico Egitto e altrettante che abbia avuto una storia con Gauguin e che lui mi abbia ritratto ne “la orana maria”. Come vedete, ne ho le prove.
C’è molto verde a New York, anche escludendo l’enorme Central Park, ogni fazzoletto di terra a disposizione nella griglia dei grattacieli è stato trasformato in un parco (bellissimo), perfino le rotaie in disuso di una sopraelevata. Ed ogni parco è pieno di scoiattoli, ovunque. Neanche un gatto (li hanno sterminati tutti?), ma tantissimi scoiattoli che per l'appunto fanno un po' finta di essere gatti e si avvicinano sfrontati chiedendo da mangiare. Sono scoiattoli amichevoli, dal pelo più chiaro dei nostri, anche i merli sono amichevoli e hanno il petto rosso. Ogni volta che ci sedevamo su una delle belle sedie a disposizione (in Italia verrebbero trafugate tutte la prima sera), venivamo circondate da tutti questi animaletti in pieno stile Disney. Può darsi che siano così allegri perché vivono in prati puliti, ombreggiati da maestosi alberi secolari (lasciati liberi di crescere senza potature), arricchiti di fiori (sconosciuti in Europa) e punteggiati di benevoli turisti che allungano molliche... la prossima volta potrei provare a chiederglielo, forse hanno imparato anche a parlare.
Chinatown è piena di cinesi. Penserete: "per forza, è Chinatown, piena di tedeschi no di sicuro!", ma io avevo visto Chinatown a Londra (una via un po' pacchiana tappezzata di negozi per acchiappare i turisti) invece a NYC c'è un intero quartiere con cinesi veri, di tutte le età, che si incavolavano parecchio se mi vedevano scattare una foto. Perfino in auto c'erano solo cinesi, ma com'è possibile? Facevano il giro dell'isolato? E i resto di newyorchesi lo scansava? Bo. Forse è stata una strana casualità, ma c'erano solo cinesi e noi due. E noi due, visto che c'eravamo, lì sì, ci siamo sedute in un ristorante con le gambe sotto a un tavolo e abbiamo gustato con calma, in mezzo alla gente del posto, zuppa di ravioli, ravioli al granchio e gli involtini primavera più buoni del mondo.

lalla
P.S. Siete pentiti di avermi chiesto un post su New York, vero? E’ venuto lunghissimo! Peggio dei filmini anni ’90, una noia pazzesca … avete ragione, ma io che posso farci? Vi avevo avvertito! Ho scattato 1054 fotografie... infondo questa è una sintesi estrema.
E poi magari voi vi aspettavate recensioni sui ristoranti, sugli hotel, sui grandi magazzini, sui musei…bè, questo è il mio viaggio, ognuno ha il diritto di fare il suo. Sceglietevi un compagno, quello giusto per voi, salite su un volo e andate a scoprirla da soli questa città, vi piacerà, qualunque siano i vostri gusti lei vi piacerà... coraggio, è sempre il momento giusto per partire!

mercoledì 9 agosto 2017

la vita di coppia è una questione di contabilità e dolciumi industriali

Qualcuno potrebbe pensare che per aver successo nei rapporti di coppia contino qualità quali dolcezza, fedeltà e affettività... bo, se non queste altre, ma robe un po' così, e invece no! Di recente ho scoperto che caratteristiche del tutto diverse avrebbero fatto la differenza e sfortunatamente io ne ero del tutto manchevole da sempre.

Io sono una ragazza di campagna, ma non sono cresciuta solo a pane e cipolla e pesche col vino, cioè: anche a pane e cipolla e pesche col vino (che buone!) ma non solo, ho avuto anche uno strano rapporto di amore e odio con i dolciumi confezionati.
Negli anni '80 per mia madre le "pastine" rappresentavano un gran risparmio di tempo, me le infilava in cartella e via, merenda risolta (lavorando e con quattro figli, era una questione di sopravvivenza, ogni tanto lo faccio anch'io e ne ho solo due!). Per me rappresentavano una gran golosità, le Girelle Motta per esempio, le srotolavo con cura, mi si appiccicava tutta la farcitura di cioccolato alle dita (che poi mi ciucciavo), che goduria... i primi tre giorni. Al quarto cominciavo ad addentarle senza interesse, al quinto mi ricrescevano in bocca e avrei tanto voluto assaggiare il trancio di pizza ghiaccio e bisunto del mio compagno di banco e al sesto pur di cambiare gusto avrei preferito addentare una mela verde (di quelle dure come la pietra e acide come lo Svelto)... ma la confezione era composta di 8 girelle e non c'era verso, nonostante fossero imbottite di conservanti e plastificate singolarmente, probabilmente la mia mamma si era convinta che fossero facilmente degradabili perché mi condannava a finirle tutte di fila, un giorno dopo l'altro, senza soluzione di continuità. Se poi facevo l'orribile errore di non avvertirla in tempo che mi erano venute a noia (suggerendole di passare ai rotolini di mela MisterDay o ai Tegolini Barilla), addio, mi toccava un'altra settimana di patimenti. Povero fegatino mio!
Questi traumi alimentari avrebbero dovuto allontanarmi per sempre da quel mondo, ma, evidentemente, non vi riuscirono mai abbastanza.

Di palo in franca, il mio albero genealogico è composto da due grandi correnti: quella scientifica (del mio bisnonno anatomista, del mio nonno botanico e della mia mamma biologa) e quella commerciale (del mio nonno imprenditore e del mio babbo commercialista). Mia sorella maggiore ha scelto la natura, quella minore la ragioneria, mio fratello di tenere il piede in due staffe, io ho scelto di scansarle entrambe e di buttarmi a pesce baleno nel piccolo rigagnolo artistico della mia nonnastra pittrice (sorellastra del nonno botanico). Comunque, fossi stata proprio obbligata avrei scelto la natura (che adoro), ma ad incasellare numeri, contare soldi e far percentuali del dare e avere proprio mai! Io odio la burocrazia! E questo, sempre più evidentemente, non va bene per niente.

Sono in vacanza da un po'. Fuori dal solito tran tran, una cosa un po' fastidiosa è dover parlare della mia situazione con persone (per altro molto carine e animate da buonissimi propositi) che solitamente non incontro o che per varie congiunzioni astrali non avevo avuto ancora occasione di ammorbare con i particolari squallidi della vicenda. Uso il verbo "dovere" perché le persone hanno una forte esigenza di sapere/tentare di capire e io ho una forte esigenza di raccontare/tentare di spiegare (sarebbe innaturale far finta di niente e parlare del tempo). E' un dovere sociale appunto, ma del tutto infruttuoso: gli altri non possono certo riuscire a capire questa realtà in poche ore (non ne sono capace neanche io che ci sguazzo da più di un anno e ho vissuto tutto in prima linea) e le osservazioni o i consigli che mi danno non solo risultano spesso scontati o inutili, ma possono perfino ferirmi. Insomma, alla fine tutto si risolve per me in qualcosa di terribilmente stancante e penoso. Era meglio parlare del tempo.
Ma il dovere è dovere e siccome io sono una che non solo ascolta le persone con grande attenzione, ma che ripensa alle parole che le vengono dette, ci ripensa ancora, e ancora, poi ci riflette, ci riflette ancora, e ancora,  e quindi si mette in discussione, tanto in discussione, ancora e ancora... anche l'uso del verbo "ferire" è appropriato. Credetemi: non c'è bisogno di urlare con me, bastano uno sguardo o un sussurro e io sento tutti e tutto, tanto tanto forte. Le persone mi feriscono da sempre, mi attraversano con tante lame, mi dilaniano, anche quelle molto carine e animate da buonissimi propositi (figuriamoci gli stronzi). Vi chiederete come possa sopportare di vivere così, ebbene, non saprei come vivere altrimenti. Negli anni ho compreso che questo è il prezzo della profondità (che è il contrario di superficialità), della sensibilità (che è il contrario di essere capace di ridere in faccia a una persona che piange), della coerenza (che è il contrario di dire una cosa e poi fare il contrario quando fa comodo fingendo di aver cambiato idea), della capacità di provare sentimenti reali (che è il contrario di far grandi proclami sentimentali e poi riuscire a vedere solo se stessi) e soprattutto di amare (che, a mio parere, è mettere spontaneamente il bene della persona che ami davanti al tuo). Chi possiede uno scudo che respinge gli attacchi o i buoni consigli degli altri, chi va dritto come un fuso convinto di far sempre bene e di essere sempre nel giusto, chi non prova mai dolore, in realtà, forse, non prova mai niente. E allora mi va bene così, finché ne avrò la forza, è un prezzo che continuerò a pagare... infondo era meglio non parlare del tempo.
Facciamo un esempio di frasi che mi vengono dette (in senso benevolo) sotto l'ombrellone e su cui (dolorosamente) rifletto.
Una, recentemente, mi ha colpito proprio tanto perché in un anno e mezzo è la prima volta che una persona proprio esterna alla vicenda, che ci aveva visto insieme (come coppia) giusto quattro/cinque volte, mi dice: "Si capiva osservandovi da fuori che poteva finire così perché era chiaro che nel vostro rapporto tu davi il 70% e lui il 30% e questo non va bene".
Prima di tutto, ma porca vacca, da fuori si capiva come sarebbe andata a finire? E io non l'ho capito, quanto sono scema! Poi, la storia del 70/30... eccoci, ve l'avevo detto che non sono una brava ragioniera! Ma come si fa a contabilizzare le percentuali corrette da dare e da ricevere? No, questa carezza non gliela do perché sarebbe la quinta della giornata invece lui me ne ha date solo due... novvia, se ti viene spontaneo di dare senza provare peso o fastidio, se lo fai senza sforzo, lo fai e basta. E va detto, a mia discolpa, che tra noi in privato c'era tanta complicità (ora, non vorrei esagerare, ma almeno un 15% in più me lo dava secondo me), ma in pubblico lui faceva sempre la recita ironica del bello e tenebroso che si era concesso alla povera sprovveduta, si faceva parecchio cadere dall'altro, si atteggiava parecchio a superiore... ma che cavolo sto dicendo? E basta! Altro che recita ironica! Era se stesso invece e io la grulla che credevo che fosse una recita!
Sempre la stessa persona (sempre molto carina e sempre animata da buonissimi propositi) mi ha detto: "si percepiva l'onnipotenza del tuo amore, che i bambini e lui erano il tuo centro, ma soprattutto lui, che avresti fatto sempre qualsiasi cosa per renderlo felice, anche troppo, se lo avessi guardato meglio potevi accorgertene, ma tu eri distratta dall'immensità del tuo amore e non ti rendevi conto, credevi di vivere nella famigliola del Mulino Bianco".
E qui fa male. Parecchio male, nonostante i buonissimi propositi.
Perché detta così sembro proprio una stupida, ma io non sono una stupida e non è vero affatto che non mi rendevo conto. Ho sempre saputo che la vita non è solo rose e fiori, ma sono sempre vissuta nella convinzione che non bisogna mai arrendersi o dare le cose per scontate, combattere per renderla migliore possibile. Che vale la pena sempre di godersi il bello che c'è, che è tanto nella vita e che basta e avanza per essere felici. Ecco, evidentemente io sono una persona forte (perché ho un'alta soglia di sopportazione) e semplice perché, mi rendono conto, mi bastano cose semplici per andare avanti ed essere felice. Ma semplice non vuol dire stupida, più che altro vuol dire rara, mi sa.
Ora, io non lo so se il babbo del Mulino Bianco nonostante l'espressione benevola e protettiva in realtà era un banalissimo stronzo bizzoso e donnaiolo, può darsi, non sembrava, ma può darsi (non lo sembrano mai e quasi sempre lo sono), ma lasciamo perdere, concentriamoci per un attimo su di lei. Non so neanche se la mamma del Mulino Bianco soffriva di un'insufficienza epatica cronica, si era sorbita un calvario di divertentissimi disastri legati all'argomento "gravidanze" (andate a buon fine o meno) e in contemporanea le alterazioni di umore del marito, le sue depressioni e i suoi periodi di presunta onnipotenza... non lo so davvero se anche a lei era capitato ciò, ma se nonostante tutto questo sorrideva ancora allegra gustandosi una colazione preconfezionata e abbracciando il suo compagno (perché lo amava sul serio e credeva che stessero affrontando tutto insieme) e i suoi bimbi (perché era matematicamente certa che fossero la cosa più bella del mondo e anche parecchio orgogliosa di essere riuscita a metterceli), insomma, a me come donna non parrebbe un esempio tanto deprecabile. Ma una tipa tosta invece, animata da tanto entusiasmo e gioia di vivere, una da ammirare (saccottini all'albicocca a parte), perché è così che si sta al mondo! Senza piangersi addosso, senza lamentarsi o sentendosi insoddisfatte di non si sa che cosa, si sta al mondo felici di starci, di amare e di sentirsi amate.
Sentirsi amata. Ecco, questo lo devo proprio ammettere e mi dispiace: io che di solito riesco ad avvicinarmi empaticamente alle persone e capirle, non sono stata capace di farlo con la persona più importante, quella con cui avevo scelto di condividere tutta la mia vita, su di lui mi sono sbagliata: lui non mi amava. Non sono stupida e mi sono sempre resa conto di quanto fosse innamorato di se stesso, ma credevo (mi ha fatto credere) che ci fosse lo spazio per amare anche me. Ho sempre vissuto con questa illusione ed è per questo che sorridevo felice, non per fare pubblicità a un biscotto di frumento con la granella di zucchero, ma perché sentirsi amate rende felici. Che vi devo dire? Non solo la contabilità non mi piace, ma manco mi riesce. Ogni tanto sospettavo di dare tanto, ma il 70%??? Bo, comunque il suo 30% mi sembrava tantissimo, mi sembrava il 50% (che insomma 70 + 50 farebbe 120...) ma anche fosse stato il 15% a me bastava per farmi sentire tanto fortunata.
Certo, la nostra è sempre stata una relazione a tre: io, lui e il suo Ego. Ora, io e lui eravamo davvero ben assortiti, combaciavamo alla perfezione come due Ringo incollati con la panna, ci piacevano le stesse cose e ci piaceva condividerle, ci sentivamo soddisfatti facendo i nostri giochi, coccolandoci e gustando le cose semplici (e rare) della vita, le cose vere. Ma il terzo incomodo era un gran rompicoglioni, a lui piaceva "il prestigio", lui aveva bisogno di essere adulato. L'ho sempre saputo che c'era anche lui, ma insomma, chi è perfetto scagli la prima pietra, io non ho mai pensato di esserlo e non ho mai preteso che lo fossero le persone accanto a me (ma sincere e un minimo affettive sì, cavolo!). Ho lasciato libero sfogo al terzo incomodo finché ho potuto, sorridendo alle sue battutine denigratorie nei miei confronti (soprattutto in pubblico ci teneva a sottolineare che "lui era di più"), lasciandogli l'illusione di essere la star della coppia (visto che ci teneva tanto) e soprattutto che fosse una cosa tanto importante esserlo... ho cercato di arginarlo quando esagerava, ma ho anche contribuito ad alimentarlo, purtroppo lo so, perché era un continuo ringraziarlo per la gioia che mi dava, o complimentarsi con lui per il suo talento, per il suo essere speciale o per come fosse coraggioso nell'affrontare i suoi problemi di depressione (col senno di poi, altro che ringraziamenti, dei bei calci nel culo, sai!)... di certo l'ho sottovalutato durante la crisi di mezza età, così il Signor Ego, con una moglie un po' invecchiata (Succede, gli anni passano anche per chi serve in tavola crostatine alla Nutella) e un nuovo prestigioso incarico di lavoro, ha assaporato un minimo di fama e ha convinto lui (il biscotto bianco che combaciava tanto bene con me che sono il biscotto nero) che non potevano più bastargli le cose semplici (e rare) per essere felice e, nel modo più banale possibile, ha pensato bene di tirare nel mezzo una sciacquetta conosciuta (in senso biblico) da mezzo mondo del fumetto facendomela passare per la Madonna di Lourdes... diciamo che a quel punto la situazione è diventata decisamente troppo squallida e affollata!
E' stata colpa mia perché mi fidavo ciecamente e lo amavo troppo? Ma che cavolo vuol dire "amare troppo"? Sempre rimanendo nel campo delle percentuali, ditemi voi se sbaglio, ma se sei capace di amare, di voler bene, lo fai al 100% e non ti pesa, ti viene naturale. A questo proposito gradirei aprire una parentesi per fare una precisazione: non esiste differenza tra i verbi "amare" e "voler bene" (tranne che nel mondo dei cioccolatini Perugina che è assai peggio di quello dei biscotti Barilla) quindi, ve lo chiedo per favore, fatela finita tutti di dirmi (con intento pseudo-consolatorio) la seguente frase (sia al passato che al presente): "lui ti voleva/ti vuole certamente molto bene, solo che non ti amava/ama più". Mi fa proprio incazzare. Chi vuole bene si comporta in modo diverso e io lo so bene perché la mia non era un'unione di convenienza, io gli volevo bene davvero. Quando vuoi bene/ami non sei cieca (lo sei solo nella fase dell'innamoramento) e neanche repressa (se non stai bene con te stessa, non stai bene con gli altri), perciò io sono sempre stata nel posto dove volevo stare, felice di starci. Quando il signor Ego ha iniziato a prendere il sopravvento, a renderlo insoddisfatto e irrequieto, ho provato a parlarci per capire se c'erano dei problemi tra noi e lui ha mentito (ripensandoci, l'ha fatto sempre, con me, con se stesso e con tutti gli altri, per tutta la vita), non mi ha mai detto che i suoi malesseri o le sue insoddisfazioni erano legate a me o alla nostra famiglia (del Mulino Bianco), ha sempre proclamato che io/noi eravamo la cosa più importante per lui. E a me, negli ultimi due anni, questo proclama imperiale cominciava a stonare perché un'altra cosa di cui sono convinta è che non conti una benemerita mazza quello che le persone dicono, conta solo come le persone si comportano. E lui aveva iniziato a comportarsi male, ad allontanarsi (a scansarmi?), passava sempre meno tempo con me o con Elia e degnava a malapena di uno sguardo la piccola. Così non andava bene per niente e gliel'ho detto che si stava perdendo un sacco di cose meravigliose (io sono una persona mite, ma che combatte). E lui, davvero meschino, ha usato la scusa della sua (presunta?) malattia per fare sempre di più lo stronzo e farmi sentire in colpa: "ma io sono stato male, ho avuto la depressione, non ricordi? Non vorrai mica farmi ammalare di nuovo? Ormai ho capito tutto: mi è successo perché ero arrivato a un livello troppo alto di responsabilità, pretendevo troppo da me stesso, ho capito che per stare tranquillo e stare bene c'è un limite che non devo valicare, che devo prendermi del tempo per me". A sì? E io che credevo che stessimo affrontando la vita insieme, invece gli ci volevano, com'è che le chiamava? Non ricordo bene, ma una roba tipo "zone di decompressione". Ma da chi? Da noi?
Che bella soddisfazione ritrovarsi a quarant'anni con due bambini spettacolari (un decenne speciale e per niente geloso e una neonata dolcissima allacciata al corpo) e pensare che tuo marito, il loro padre, avesse bisogno di decomprimersi (da noi?) per andare avanti tranquillo e stare bene.
Non sono stata cieca, né stupida, amica molto carina e animata da buonissimi propositi, negli ultimi 4/5 anni (probabilmente quelli in cui ci hai visto tu) ho cominciato a farmi tante domande e negli ultimi 2 come coppia (si fa per dire) mi sono accorta di tutto, ma c'era la scusa del "sono tanto malato" e c'erano i 15 anni precedenti da mettere sulla bilancia e (ancora animata dalla balla che il tizio fosse capace di amare un altro essere umano oltre a se stesso) ho deciso di restargli vicino, ho deciso di combattere perché la vita è lunga e se vuoi condividerla con qualcuno lo devi sapere in partenza che non sarà sempre tutto perfetto, che ci possono essere dei periodi difficili e poi magari, mettendocela tutta, passano.
O degenerano del tutto, come è capitato a noi, ma almeno non posso accusarmi di non avercela messa tutta. Ce ne ho messa troppa? Che vi devo dire? Ciascuno da quello che si sente di dare, contabilità a parte. Io do tantissimo (troppo?) nel lavoro, do tantissimo (troppo?)  ai miei studenti, do tantissimo (troppo?) ai miei amici, do tantissimo (troppo?)  ai miei figli e molto probabilmente, anzi certamente, ho dato tantissimo (troppo) alla persona che amavo. Dando tantissimo/troppo c'è il rischio, anzi, la certezza, di attirare tanti sfruttatori, tante sanguisughe, tanti viscidi esseri che succhiano e io il peggiore di tutti me lo ero messo nel letto.
Ancora la stessa persona (ancora molto carina e ancora animata da buonissimi propositi): "Tu sei un'idealista, per questo non riesci a perdonare quello che ha fatto. Da tutta questa storia potrai imparare a vivere i rapporti meno da idealista".
Ora, qui il verbo "riuscire" mi sembra proprio usato a sproposito, non è che io "non riesco", io "non voglio" e soprattutto "non devo" perdonare proprio nessuno. Gli uomini che fanno violenza (fisica o psicologica che sia) non vanno perdonati, vanno allontanati e basta.
E "tu sei un'idealista" detto tipo offesa non mi piace per niente, mica è un difetto avere degli ideali o dei valori (basta non pretendere di imporli agli altri). Cioè, io mica vado in giro a costringere la gente ad amarsi per tutta la vita. Manco lui ho costretto, non l'ho obbligato a impegnarsi con me, non l'ho obbligato a farmi certe promesse (me le ha fatte lui perché sapeva cosa avrei voluto sentirmi dire per ottenere da me quello che voleva) e quando mi ha allegramente comunicato di aver incontrato la donna della sua vita (che, per inteso, non sarei stata io) mentre tutto il resto della mia famiglia piangeva e diceva addio al mio babbo (quando per una volta sarei stata io ad aver bisogno di appoggio), non ho neanche provato a trattenerlo, gli ho detto solo "quella è la porta, vai"). Che ognuno nella vita faccia quello che gli pare, ma che le persone non vogliano convincermi che voler bene davvero al proprio compagno/a e rimanergli accanto "nella buona e nella cattiva sorte" sia un comportamento deprecabile.
Insomma, io dovrei imparare a impegnarmi di meno e a fregarmene? Che infondo che vuoi che sia, stiamo insieme finché va poi arrivederci e grazie, amici come prima, morto un Papa se ne fa un altro, si chiude una porta e si apre un portone o peggio ancora: si riapre la stessa porta di prima... dovrei imparare a sguazzare nella dilagante superficialità e a coltivare anaffettività e menefreghismo.
Lo sapete invece che vi dico, che purtroppo dai traumi non si imparano mai cose belle (a patto che queste lo siano). I traumi non insegnano, segnano e basta.
Vorrei tanto riuscire ancora a credere alle persone. Vorrei tanto poter pensare che siano sincere su quello che provano e vogliono, ma ormai lo so che non è così. Io sono sincera, io sono profonda, io sono esposta. Da piccola percepivo il rischio che gli altri mi facessero del male, per questo preferivo stare da sola, per questo ho dovuto faticare tanto per trovare il coraggio di aprirmi e fidarmi. Ma adesso basta, non mi fido più.
Non voglio e non posso rinunciare a sentire tutto quello che sento, è così bello, non posso rinunciare ad amare fino infondo, è così appagante, non posso rinunciare a essere me stessa, così innamorata della vita. Voglio continuare a viverla felice, assaporando le cose semplici e vere, che sono rare. Voglio continuare a essere sincera, idealista e pura.
Ma quella sensazione di rischio che sentivo da piccola adesso è una certezza. Tutti mi hanno ferito e la persona di cui mi fidavo di più, con cui mi ero aperta totalmente, mi ha usata e devastata senza ritegno, deridendo il mio dolore.
Io sono davvero segnata e per questo, ora come ora, ne sono certa, desidero e spero di non innamorarmi più. Consideriamo per un momento che il mio modo di amare sia davvero sbagliato, può essere, figurati se pretendo di avere la ricetta giusta (l'evidenza palesa che non ce l'ho!) ma è il mio modo, io sono fatta così. Non mi riescono le vie di mezzo, il "finché va va e dopo restiamo amici come prima", non sono capace di impegnarmi solo un pochino e starne fuori quel che basta... magari la prossima volta comincerei facendo la splendida (tutta distaccata), ma poi lo so come andrebbe a finire (io mi affeziono anche agli scontrini, figurati a uno che mi fa gli occhi dolci): ci cascherei di nuovo, finirei per fidarmi e darei ancora tantissimo/troppo al mio compagno e lui (annusata la situazione di sfruttabilità) comincerebbe a prendere/pretendere ogni giorno di più (subdolamente e con stile, come solo gli uomini sanno fare), ancora e ancora, senza fine. Non è amore questo.
Penserete: ma non sono mica tutti così! No, non tutti per fortuna, ma parecchi sì! Vedo in giro tante donne che si accontentano, che tirano avanti in qualche modo raccontandosi che "tutti possono sbagliare", "ci possono essere momenti di debolezza", "loro hanno esigenze diverse dalle donne", "hanno bisogno di sentirsi realizzati nel lavoro", "hanno bisogno di svagarsi", "hanno bisogno di fare sport", "hanno bisogno dei propri spazi"... hanno un sacco di bisogni, loro. Vedo in giro così pochi uomini capaci di mettere il bene della propria compagna (e perfino dei propri figli) davanti al proprio... Non lo so se sono solo io a vederci male perché ora come ora mi si è pure abbassata la vista oltre che segnato il cuore. Non lo so se sono sbagliati loro o se sono sbagliata io. Per molte donne va bene così, per me no, io voglio sincerità e rispetto, voglio essere amata, non sfruttata. Ma probabilmente, ormai l'ho capito, io sono una persona facile da sfruttare e difficile da amare. E allora è meglio che me ne stia sola. L'ho detto anche all'amica tanto carina e animata di buonissimi propositi di cui sopra: "Voglio stare da sola".
E lei: "Non dirlo, sarebbe un peccato così grande che una persona buona come te rimanesse da sola".
Ma cara, è proprio perché sono buona che è bene che me ne stia da sola. E a dirla tutta non sono solo buona, sono anche belloccia, interessante, entusiasta e soprattutto rara. Che queste non saranno caratteristiche essenziali per una serena vita di coppia come vituperare la famigliola del Mulino Bianco, tener bene la contabilità affettiva e vivere con la giusta superficialità, ma comunque adesso, per favore, facciamoci un tuffo o parliamo dello Scirocco, che è meglio.

lalla

P.S. la storia delle pastine che mi venivano a noia vale per tutte tranne che per le Fiesta per cui sviluppai una vera e propria dipendenza. Molti mi dicono di averla per la Nutella, pensiamoci, forse la Ferrero nei suoi prodotti ci mette la droga, altro che l'olio di palma!