giovedì 16 luglio 2020

il mio cervello strano mi fa regali splendidi

Ho una memoria formidabile, ma strana.
Si diletta in performance inutili, tipo: mostrandomi un qualsiasi fotogramma, riconosco immediatamente il film da cui è tratto (anche se l’ho visto 40 anni fa) e mi ricordo pure le battute, a che serve?
E si diverte invece a mettermi in situazioni imbarazzanti, tipo: un apparente estranea/o mi ferma per strada chiamandomi per nome tutta/o giuliva/o per poi incollarmi 10’ a chiacchera, chiedendomi notizie di ogni membro della famiglia e io (per dieci minuti) a sudare e glissare facendo finta di ricordarmi chi è con domande generiche “… e tu invece che cosa mi racconti?” nel tentativo disperato di ricostruire dagli indizi l’identità misteriosa... il vuoto cosmico.
Ma perché? Che cervello ho, a chiazze come il manto dei leopardi?
Confondo i nomi, li scambio, li storpio e pensate che casino con gli autori stranieri della Storia dell’Arte (mi dispiace tanto, spesso mi sento incompetente).
Non basta, non riesco a quantificare nella mia mente numeri oltre il 100, cioè se mi dite “a Firenze vivono circa 10.000 persone”, a me sta bene. Se mi dite “non è vero, ce ne vivono 100.000”, mi sta bene lo stesso. “1.000.000… “, e perché no? E’ grave?
Non ricordo le date, ma a questo punto mi pare il meno.
Però ricordo ogni particolare delle opere d’Arte e la sensazione che mi hanno trasmesso quando le ho viste la prima volta. Ricordo tutta la mia vita con interi flash-back, emozioni, parole, sguardi, colori, perfino temperatura, sapori e odori.
Faccio scorta di memoria visiva ed empatica, quando distribuiscono la parte numerica e letterale il mio cervello si finge malato.
Io credo che lo faccia apposta, per quanto dotato di capienza formidabile, lui sa che non potrebbe contenere tutto, allora sceglie. E poi si prende cura di ogni ricordo, lo nasconde, lo conserva, lo protegge. A me va anche bene così, ma sto invecchiando e, per quando ami la settima arte, se per cortesia volesse prendere in considerazione di cancellare un po’ di film e fare posto...
In ogni caso, non mi lamento e ogni tanto la mia memoria mi fa regali inaspettati e splendidi.


Lunedì 17 giugno, riunione plenaria in presenza (a scuola) con i miei colleghi per iniziare gli esami di Stato. Ci sediamo, all’inizio siamo emozionati di tornare in classe, di rivederci dopo tre mesi. Ci sentiamo a fatica (a distanza di 2 metri e con la mascherina), ma ci salutiamo e poi tentiamo di fare due commenti sull’esame che sta per iniziare, ipotizzando un calendario. Una collega dice qualcosa riguardo a quando abbiamo fatto noi la maturità, che finiva oltre la metà di luglio e io aggiungo “E’ vero, io l’orale l’ho fatto per ultima, il 24 luglio, un mese dopo il tema di Italiano che capitò proprio per San Giovanni!” ed ecco che il mio cervello mi serve il suo regalo, così, da un momento all’altro.
Mi invade la testa il profumo del caldo di San Giovenale. Il caldo ha un odore, sapete? E anche un rumore, il profumo dell’erba al sole e il brusio dell'estate. Mamma, fratello e sorelle erano già partiti per il mare, io rimasi a casa col babbo quasi un mese. In realtà, il babbo lo vedevo solo la sera, partiva presto al mattino per Firenze e rientrava a ora di cena, io me ne stavo da sola a studiare, vestita di stracci. Una bella vita. Avevo organizzato un efficientissimo calendario per il ripasso, inserendo ogni giorno a pranzo una pausa di 2h per vedere uno dei miei film preferiti (mi ero creata una cineteca registrando le cassette, loro poi nel tempo si sono smagnetizzate, il mio cervello ancora no). Studiavo spesso sotto un albero, tenendo nel palmo della mano Elsa, una gattina tigrata nata a fine giugno, giuro che mi faceva le fusa nonostante avesse ancora gli occhi chiusi (una volta fatto l’esame la portai con me al mare, è vissuta 16 anni ed è stata uno dei più grandi amori della mia vita). Nel tardo pomeriggio, quando il caldo mollava qualche grado, facevo il giro dell’orto in cerca di cibo e trovavo praticamente solo zucchine, quindi mi dilettavo in esperimenti culinari (zucchine trifolate, frittata di zucchine, zucchine ripiene, zucchine lesse, pasta con le zucchine…) e il babbo rientrando dal lavoro soffriva molto (non erano la sua verdura preferita e io ero una cuoca alle prime armi).
Eccoci al vero regalo che mi ha fatto la memoria, ve lo racconto.
Una sera, rientrando, il babbo mi disse: “perché stasera non andiamo fuori a cena, ti va?” (evidentemente era arrivato a saturazione di zucchine).
E’ stata una delle serate più belle della mia vita e credevo di averla dimenticata, invece la mia memoria, birbona, la conservava con cura in un angolo, per regalarmela a sorpresa nel momento più strano possibile (dinanzi ai colleghi, distanziata e mascherinata).
Appena è riaffiorato il ricordo mi ha sorpreso così tanto che ho cominciato a parlarne ad alta voce: “Io studiai tutto luglio a casa da sola, che caldo… oddio, mi ricordo che il mio babbo mi portò fuori a cena!”. La collega, giustamente, si è staccata dal mio flusso mentale e ha prestato attenzione a qualcun altro.
Che c’entrava adesso parlare di una cena col babbo mentre stavamo organizzando il calendario degli orali?
Vaglielo a spiegare che ho il cervello fatto a chiazze…
ho abbandonato la conversazione per qualche minuto, non credo che nessuno si sia accorto di nulla, al massimo si saranno sentiti sollevati (io chiacchiero sempre troppo). Mi sono rifugiata nella mia mascherina, ho lasciato che tutto il ricordo mi invadesse completamente e che mi salissero le lacrime.


Io e il mio babbo non andavamo sempre d’accordo, ma quel mese lo passammo molto bene. Poi ad agosto ricominciarono gli screzi perché io ero uno spirito estroso e avrei voluto iscrivermi all’Accademia. Comunque, da mesi avevo già accettato di tentare il test di ammissione ad Architettura come voleva lui (ma con l'idea di fare l’insegnante di Storia dell'Arte, non l’architetto). La verità è che avevo paura di non avere abbastanza “fuoco sacro” per fare la pittrice, mi piaceva tanto scrivere e stare sul palco (ma una carriera nel mondo dello spettacolo era del tutto fuori discussione), lasciavo scegliere la mia famiglia, ma mi lamentavo continuamente in preda al vittimismo, atteggiandomi ad artista incompresa. Ricordo che un giorno a settembre il babbo mi trattò molto male per la mia inedia, perché non mi stavo preparando per il test di ingresso ad Architettura, dormivo troppo, ciondolavo tutto il giorno e non dipingevo neanche: “dovresti desiderare di dipingere tutti i giorni se davvero volessi diventare un’artista come dici!”. Non sapevo se avesse o meno ragione, non sapevo cosa fossi e cosa volessi diventare, decisi di non prepararmi: ho lasciato che scegliesse il destino al posto mio. Al test sono arrivata 54° (o 45esima? Bo…) su più di 1500 iscritti, presa. E’ andata come è andata, bene suppongo. Non divaghiamo adesso e torniamo a quella sera dove il tempo scorreva sereno e lineare.
Per abitudine la nostra famiglia a cena fuori non andava mai, solo al ristorante cinese di piazza libertà per qualche compleanno della mamma. Le ragioni fondamentali erano due: la prima è che la mia mamma ha sempre cucinato come una Dea e non è mai esistito ristorante migliore (eravamo buongustai), la seconda è che con quattro figli formavamo una bella squadra di sei e i miei non se la sentivano di spendere tanto (eravamo tirchi).
In un “ristorante vero” a cena sola col mio babbo ci sono stata solo quella volta.
Ricordo che era ancora tutto lui, con i suoi modi decisi, col suo fisico possente e la pancia (che ha poi perso con la malattia), era rientrato dall’ufficio col completo elegante e la cravatta, stava benissimo.
Non mi feci ripetere l’invito due volte, cacciai le zucchine in frigo alla velocità della luce e andai a cambiarmi. Mi portò in auto in un ristorante a Castelfranco, vicino al rinomato “Vicolo del Contento” (dove non sono mai entrata, ma me lo disse lui che era lì vicino). Arredo chiaro, ci sedemmo in un tavolino al centro, mi sentivo una prescelta, la vincitrice di un premio.
“Lalla, ti va bene se ordiniamo i taglierini al tartufo, ti vanno?”.  Mi sarebbe andata qualsiasi pietanza. “Poi prendo anche una bottiglia di vino bianco”.
Io di solito a casa bevevo solo un fondino di vino, ero piccola, non avevo ancora diciott’anni, lui mi lasciò bere quasi due bicchieri. Mi girava un po’ la testa. Risento in bocca il sapore dei tagliolini. “lalla, secondo me sono un po’ sciocchi, chiediamo il sale?”. E’ vero, erano sciocchi, ma non glielo avrei mai detto perché anche se fossero stati amari come il fiele e il vino fosse stato piscio, a me sarebbe piaciuto tutto lo stesso. Mi piace ancora adesso la sensazione che provo riassaggiandoli nella mente. Ci aggiunsi un po' di sale sopra e del pepe.
Non ricordo se parlammo specificatamente dell'esame che mi aspettava o dell'università, ma lui pensava sempre che io fossi bravissima e quella sera mi sono sentita così sicura e piena d’ottimismo, sapevo che tutto sarebbe andato bene: l’esame, le scelte per il mio futuro, la mia vita intera!
Che bel regalo, poter ricordare.
Anche nel posto e nel momento sbagliato, non importa.
Ti perdono cervello mio per tutto lo spazio che sprechi nell’inutile videoteca, ti perdono per tutte le nozioni che ti perdi e per gli errori che commetti, ti perdono anche se ogni tanto mi metti nei guai, tu promettimi soltanto che continuerai ad archiviare e custodire i ricordi importanti, quelli che riguardano la mia vita e le persone che amo. Che le terrai per sempre accanto a me.


lalla

Il mio babbo, estate 1994. Al mare,  un anno dopo la nostra cena. Di questi tempi avevo già preso 30  al primo esame di Architettura (analisi 1). La prima persona da cui sono corsa in bici a raccontarlo, è stata lui.
P.S. Due anni fa (il babbo se n’era già andato), la mamma ci ha chiesto se eravamo felici del nostro lavoro o se nella vita avremmo voluto fare altro.
Guido, che fa il commercialista (per mantenersi) e il contadino/pescatore/cacciatore (per divertirsi): “io avrei potuto fare le immersioni subacquee da professionista e mi sarebbe piaciuto fare solo l’agricoltore, ma la vita del contadino è pericolosa, se ti capita la stagione sbagliata o una grandinata perdi tutto il raccolto… meglio coltivare le proprie passioni e avere anche un altro lavoro”.
Io, che faccio l’insegnate per mantenermi (e anche divertirmi) e molte atre cose (per divertirmi): “a me sarebbe piaciuto fare l’attrice… anche la scrittrice… i cinque anni che ho fatto la ceramista sono stati magnifici, invece non credo sarebbe stato un bene trasformare in lavoro la mia passione per la pittura… l’architetto non direi proprio…  infondo il mio lavoro mi consente di dipingere, di scrivere e anche di salire sul palco tutti i giorni a fare uno spettacolo davanti ai miei studenti!”.
Mamma: “insomma, alla fine siete abbastanza soddisfatti, no?”:
Io: “Sì certo, poi ogni lavoro ha i suoi pro e i suoi contro, ma nella vita sono importanti anche tante altre cose… l’unico che adorava proprio fare il commercialista era il babbo, no?”
Guido: “Gli dava soddisfazione, è vero, ma anche lui si è adattato per aiutare il nonno alla ditta, in realtà il suo sogno era fare l’architetto!”.
O questa? Voleva fare l’architetto? Perché a me non l’ha mai detto?
Cioè, io sarei l’unica figlia ad aver realizzato il suo sogno e poi ad averglielo disintegrato davanti agli occhi?
Ecco perché, pover’uomo, ha continuato fino alla morte, tutto orgoglioso, a pagarmi la tassa d’iscrizione all’albo nonostante io facessi tutt’altro e non avessi mai esercitato la professione (tranne che per ristrutturare il suo studio, casa mia e di mia sorella).
Io non l’ho mai saputo, porca miseria, non avrei comunque fatto quel mestiere solo per farlo contento, ma avrei evitato di ripetere ogni tre secondi che non mi piaceva fare l’architetto e che non l'avrei fatto mai, manco morta. Che dispiacere.
Per fortuna so che mi ha perdonato, quando subito dopo la laurea e l'abilitazione, ho scelto di lavorare come ceramista (invece che come architetto) proprio non gli andava giù, ma negli ultimi anni era diventato molto più fragile ed empatico, mi ha dimostrato tante volte di apprezzare sinceramente le mie pitture e questo blog.

mercoledì 15 luglio 2020

io che resto estranea al grande nucleo famigliare degli italiani

Una di queste sere ho assistito a uno spettacolo all’aperto, spettacolo per altro molto piacevole.
Non vi dico di quale si tratta, non voglio creare problemi a nessuno e visto il tono del post non cambierebbe niente perché, diciamocelo chiaramente, queste serate vanno tutte a finire nello stesso modo.
L’evento, dal punto di vista delle precauzioni anti-contagio, sembrava organizzato fin troppo bene e, oltre alle solite misure precauzionali, era prevista anche della roba ridicola tipo: “per non toccare i soldi, in prevendita acquistate dei bollini, all’ingresso scambieremo il bollino con un biglietto…”. Bo, il gioco delle tre carte.
Comunque, c’era molta gente che conosco. Sono arrivata con un’amica, in largo anticipo per poter mangiare qualcosa prima. Ci siamo dirette verso il tavolino (debitamente distanziato) che avevo prenotato. Prima di arrivarci, ho incrociato i primi conoscenti seduti a un altro tavolo. Una, carinissima, mi aveva procurato i fantomatici bollini, mi ha accolto calorosa complimentandosi per la linea post-lock-down (in verità è una linea durante-dieta e ancora non tanto splendida). L’altro, un po’ meno delizioso, con il seguente saluto: “Ilaria, scommettiamo che te manco ti togli la mascherina?”. Tipo bambino che strattona la mamma per strada e poi, indicando con tutto il braccio teso, le grida nell’orecchio (in modo che tutti i passanti possano udire e lei perda per sempre la funzionalità del timpano): “mamma, mamma, hai visto quella signora strana cosa indossa sulla faccia?!”.
Ma dai lalla, era scherzoso! Infatti io, scherzosamente, gli ho fatto il dito medio.
Ormai non solo devo sopportare che tutti se ne freghino altamente di qualsiasi tipo di precauzione, ma soprattutto che mi deridano quotidianamente.


L’attesa prima dell’evento è durata più del previsto, c’è stato modo di salutare molte altre persone. Mascherine indossate (perché vi giuro che portarla al braccio tipo segno di lutto non è di grande utilità) pari al 2%. Gente che si toccava, si stringeva le mani, tutti a ridere e scherzare a pochi centimetri di distanza come niente fosse, beati loro.
Al momento di scambiare i famosi bollini con i biglietti e poi salire la scala che ci avrebbe portato all’arena per assistere allo spettacolo, vi giuro che, non solo non rispettavano le distanze, mi spintonavano.
Mi spintonavano.
I biglietti venduti corrispondevano ad un numero adeguato, ciononostante gli spettatori si sono seduti uno accanto all’altro.
Io le la mia amica ci siamo distanziate e abbiamo messo le nostre borse per evitare che qualcuno si sedesse a contatto di anca. Bellina l’idea della borsa, no?
Ora, io e la mia amica, sia chiaro, non contiamo niente.
Contano le altre duecento persone ammassate.
La mia tanto ridicola mascherina chirurgica non servirebbe a proteggere me, ma gli altri.
Ma me lo spiegate io, da sola, come cavolo faccio a proteggere l’intera Firenze?
 

Giorni fa mi hanno chiesto di poter organizzare una cena nel mio giardino, ho accettato perché mi faceva piacere ospitare e mi avevano assicurato che l’avremmo svolta “in sicurezza”, invece stessa identica cosa.
Anche sapendo che saremmo stati all’aperto, per rispetto avevo igienizzato la casa, avevo distanziato le sedute, chiesto di indossare le mascherine per avvicinarsi al buffet mono-porzionato e di disinfettarsi le mani. Dopo 30’ si erano tolti le mascherine, avevano spostato le sedie e si erano tutti “assembrati”. Ho cercato di dire che così non era il caso, mi hanno risposto: “ma noi stiamo appiccicati tutti i giorni, ormai è come fossimo un unico grande nucleo familiare”. Al ché io sono rimasta l’unica distanziata in casa mia, l’unica scema a pensare che ancora stare attenti avesse un senso, l’unica estranea al “grande nucleo famigliare”, sono soddisfazioni.
Attualmente il virus in Italia è, per fortuna, molto sottotono, ma nel mondo la gente muore.
S’è capito che alle persone di quello che succede in Brasile o in America evidentemente non gliene frega una mazza e, a proposito, sono sempre qui a cercare di capire cosa diavolo sia successo a quei disgraziati di profughi che a fine febbraio venivano massacrati a Lesbo, nessuno ne parla, sono stati sterminati tutti dai fascisti o dal Covid-19? Se qualcuno ne sa qualcosa, me lo dica per favore.
In ogni caso, la gente pensa solo al suo orticello, ma almeno a quello ci pensate? Siete tutti sani e vigorosi in famiglia? Io ho una fantastica mamma 75enne diabetica, un meraviglioso nipotino prematuro e possiedo un fisico imperfetto (sono già alla terza polmonite… la 4° vien da sé, anche no).
 

La mascherina non vi garba e s’è capito, ma fate uno sforzo porca miseria!
Oppure fate come vi pare, le autorità ve lo permettono, nessuno fa niente per intervenire (è sotto gli occhi di tutti quello che sta succedendo). E poi magari c'avete tutti ragione e ormai è finita (speriamo!), forse il vostro è "un rischio calcolato". Quindi ok, va bene, decidete pure di rischiare di ammazzarmi ma io no, non ho le vostre certezze e decido di non voler rischiare di ammazzare voi.
Gradirei in tutto questo che almeno la smetteste di prendermi per il culo se mi metto la museruola come un cane. E che la smettessimo tutti di pensare che l’unico centro del contagio siano le aule di scuola.
Basta arrovellarsi il cervello sul come riaprire a settembre, a questo punto possiamo riaprire e basta!
Perché sprecare soldi ed acquistare mono-banchi mignon gettando (non si sa dove) quelli perfettamente funzionanti? Perché svilire la didattica con ore di 45’ che non concedono un minimo di socializzazione e umanizzazione (ma solo la compilazione del registro elettronico e una piatta somministrazione dei contenuti)? Perché incasinarci tutti con ingressi scaglionati e turni pomeridiani se poi loro, gli studenti, fuori da scuola sono “un unico grande nucleo famigliare”? Perché distanziare genitori e insegnati che agli aperitivi gozzovigliano felici? Perché infierire con una didattica “mista”?
Non potremmo più semplicemente tornare in classe e non cambiare nulla? Vi prego, facciamolo.
I soldi dello stato (i nostri soldi) sarebbero molto più utili per rilanciare le attività in crisi e aiutare le famiglie che non ne hanno per fare la spesa.
A che serve fare tante sceneggiate anti-coronavirus da una parte e tenere tutt’altro comportamento da un’altra?
L’ipocrisia non evita il contagio. La stragrande maggioranza delle persone ha scelto la strada dell’ “ormai è passato, facciamola meno lunga”. La maggioranza vince, a questo punto dovremmo avere la coerenza di percorrerla fino infondo. 


Io sono un caso a parte, io ho deciso di farla più lunga.
Ho deciso che quando una persona mi si avvicina troppo (per il suo bene) faccio un passo indietro (e quasi sempre quella si offende invece di essermi grata). So che la mia mascherina da sola non serve a niente, ma ho deciso di indossarla comunque come forma di rispetto per le vittime che ci sono state (e ancora ci sono) in Italia e nel mondo. Diciamo che è una specie di simbolo, di banbiera. A voi garbavano i cartelloni con la scritta “andrà tutto bene” e a me invece garba la mascherina chirurgica brutta brutta (non quelle trendy e colorate che portate al braccio voi). Sui gusti non si discute, che ci vuoi fare?

Dal tono di questo post potete intuire come mai il distanziamento sociale mi venga naturale: la gente semplicemente non mi invita (ma a dire il vero non l’ha mai fatto, non c’entra il Covid-19). Ho abitudini diverse dagli altri, quindi li incrocio di rado.
Io e la mia mamma non partiremo per la nostra avventura estiva quest’anno, questa rinuncia a viaggiare è davvero la più pesante per entrambe, ma presto spero di essere all’Elba. So già che lì vi ammucchierete tutti in spiaggia senza pietà, ma tanto noi (per la gioia dei dermatologi) la frequenteremo dall’una alle quattro, quando è deserta. Sarò libera di suicidarmi con i raggi ultravioletti invece che con il coronavirus, o no? Scelte strane.
Ricapitolando, io me ne starò qui da sola con la mia mascherina aspettando con ansia che almeno in Italia il numero di morti, ricoverati e contagiati arrivi a 0. Zero. Nessuno. Fine.
Prima è, meglio è. A quel punto, me la levo.
Intanto italiani godetevi i vostri assembramenti e buona estate a tutti.

lalla


P.S. Penso sempre a lungo termine e cerco di immaginare tutti gli scenari possibili. Credo che la nostra società (e non la sottoscritta) non riuscirebbe a sopportare un nuovo lock-down in autunno, sarebbe stato molto bello aver già raggiunto l'agognato zero.

domenica 12 luglio 2020

parlando di esami

Io sono sempre stata un caterpillar nel fare esami. Una macchina da guerra.
La cosa che mi rendeva speciale era la capacità di “fare io” l’esame, di condurlo. Nel senso che non me ne stavo lì come un agnello sacrificale in attesa della mazzata, nel 90% dei casi è stata praticamente una conversazione alla pari anche perché avevo ben chiaro dove sarebbe calato il bastone e così potevo scansarmi in tempo. La caratteristica più importante del bravo studente non è la preparazione, bensì la capacità di “leggere” il proprio insegnante. Insomma, potendo prevedere dove saremmo andati a parare, non ci sono mai state troppe sorprese. Sia io che il mio professore avevamo qualcosa (molto) da dire sull’argomento perché ovviamente io ero anche preparatissima (oltre che sveglia) e quando si tratta di parlare, qualcuno dovrebbe spararmi alle gambe per farmi stare zitta.
Tutto è iniziato alle elementari, le ho vissute in modo davvero travagliato.
Non ho frequentato nessun asilo e ne vado fiera, ho passato la mia infanzia allegramente appesa sugli alberi, a coccolare gatti e a rincorrere galline. Trascorrevo le giornate da sola (e in piena armonia) a disegnare splendide donne libere (come lo ero io) e a inventare storie (più o meno quello che mi piacerebbe fare anche adesso). La vera spensieratezza.
Poi da un giorno all’altro, senza preavviso, mi hanno buttato su un banco (e io sono nata a novembre, quindi a scuola ci sono pure andata presto).
Non l'ho presa bene. C’ho provato, credetemi, e all’inizio ero molto emozionata di questa novità e anche ottimista (sono una a cui piace buttarsi). Avrei conosciuto la maestra di Guido e Silvia, solida istituzione del paese, ci tenevo a fare bella figura.
Appena entrati in classe ci fece un bel sorriso, poi ci chiese: “chi di voi sa scrivere il proprio nome?” Io alzai subito la mano perché sapevo scriverlo benissimo, anzi, andavo tutta fiera di aver inventato un modo molto grafico di incastrare le due “LL” per formare una firma stilosa da apporre sui miei disegni. Scrisse i nostri nomi alla lavagna e ci chiese di alzarsi, uno per uno, e di andare a riconoscerli. Io non sapevo leggere nient’altro ma ci sono andata fiduciosa, solo che il mio nome non c’era e così gliel’ho detto: “il mio nome non c’è”.
“Come no? Allora scrivilo tu, se ne sei capace davvero”. Aveva smesso di sorridere, il suo tono di sfida mi turbò. Non conoscevo ancora la “razza insegnante”, era il mio primo contatto, e non mi aspettavo di poter finire così alla gogna in un attimo. Ricordo che la mano mi tremava e la firma non venne tanto elegante. “Questo non è il tuo nome: lalla non significa niente, tu ti chiami Ilaria” e sempre più fredda “vai a sederti”. Quindi pensò bene che non bastasse e che fosse il caso di umiliarmi di fronte a tutta la classe: “Bambini, ricordatevelo bene tutti: se non sapete fare una cosa non dovete dire bugie, io non sopporto le persone che mentono”.
Io non mento mai. Era lei a non conoscere il mio vero nome. Prendermi della bugiarda in quel modo dopo 10’ di scuola, è stata una delle offese più pesanti che ho subito nella vita.
A fine mattinata entrò un’altra insegnate: “Dovremmo riequilibrare le classi, l’altra sezione è troppo piccola, va spostato uno studente, dopo ne parliamo”.
La maestra/istituzione del paese non ci pensò neanche un secondo, lo disse senza guardarmi negli occhi: “non c’è bisogno di parlarne, prenditi lei”.
Prenditi lei.
Lo so che questa storia l’ho già raccontata un milione di volte, il fatto è che, evidentemente, mi brucia ancora. Magari a quella povera donna era morto il gatto il giorno prima, vallo a sapere, ma io sono permalosa a livello patologico e a tutt’oggi non mi è chiaro una cosa: se sono nata dislessica o se ci sono diventata per forza di volontà. Quel rifiuto mi fece sentire in diritto di rifiutare. In ogni caso, non posso negare di aver sofferto di disturbi specifici dell’apprendimento (e di non esserne guarita mai completamente).
Non ricordo più niente della prima elementare e sospetto persino di non averla fatta, in ogni caso non credo di aver imparato praticamente nulla. La maestra/istituzione fu costretta a riprendermi in seconda, ma quel primo giorno era cominciata una guerra, dal mio punto di vista l’aveva iniziata lei, io mi impegnai molto nel portarla avanti scrivendo davvero come una bestia.
I miei quadernoni di seconda elementare sono commoventi, li ho ritrovati anni fa e mi sono quasi messa a piangere, poi li ho rinchiusi in uno scatolone che non ho avuto più il coraggio di riaprire. Ricordo solo di aver pensato “la mia mamma vedendo questi scempi come ha fatto a non pensare che io avessi un problema?”. Bo, misteri della maternità.
In alcune pagine campeggiano enormi parole (in quello che sarebbe dovuto essere un corsivo) scritte con un pennarellone spuntato viola, tutte storte e completamente fuori-scala, praticamente illeggibili e completamente fuori dalle righe, come mi sentivo io.
Passavo la ricreazione a disegnare sa sola, nel mio banco. Quella era l’unica cosa che sapevo fare davvero bene e infondo anche adesso, no? Non è che poi in quarant’anni si cambi granché.
Torniamo in seconda elementare, forse anche la maestra ci metteva del suo: io adoravo recitare ed ero anche bravissima e pimpante ma allo spettacolo di Natale lei mi fece vestire da pastore maschio “sei troppo scura per fare la Madonna e hai i capelli troppo corti per fare la femmina”. Per Maria scelse una sdolcinata bionda e vabbè, ma farmi fare il pastore maschio... stiamo scherzando?
Ero scura e maschiaccia, è vero, ma sapevo disegnare meglio degli studenti di quinta. Tutte le maestre della scuola se ne erano accorte, ignoravano però che a poco più di 7 anni sapessi anche vendicarmi. Mi misero a decorare tutte le finestre della scuola, che settimane magnifiche, passavo intere mattinate a dipingere un enorme presepe sui vetri mentre i miei compagni (poveracci) se ne stavano al banco a spremere le meningi.
Nell’ultima grande finestra dipinsi la Sacra Famiglia, erano tutti bellissimi e con la pelle più scura di Barack Obama. La mia mamma si fece una grassa risata, poi sentenziò che la mia ricostruzione era storicamente corretta e per poco la maestra/istituzione non ci rimase secca!
Continuammo a scambiarci cortesie per quattro anni.
Ricordo ancora l’incubo di quando mi interrogava per giorni e giorni in piedi sulle tabelline esordendo sempre con la stessa frase “ora sentiamo l’Ilaria che tanto non le sa” e infatti io non le sapevo, mai. Non mi capacitavo, il pomeriggio le ripassavo e ogni volta al mattino mi fregava. Alla fine, disperata, mi rivolsi alla mamma: “ti prego aiutami, sono un caso disperato con le tabelline, in classe lo sanno tutti ormai”.  Dopo avermele fatte un po’ ripetere la mamma, con mia grande sorpresa, disse: “Guarda lalla che tu sai praticamente tutte le tabelline eccetto pochissime (7x6, 8x6, 7x9, 8x9)”
L’arpia mi chiedeva sempre quelle!
In una mezz’oretta trovai il modo di impararle  e il giorno dopo la lasciai senza fiato. “Ma come hai fatto Ilaria a imparare tutte le tabelline in un giorno?”
E io, che sono una pura di spirito, le risposi pure: “Non le ho imparate tutte, lei mi chiede sempre le solite 4 o 5 più rognose, mi è bastato imparare quelle!”.
Arriviamo all’esame di 5° elementare (che purtroppo adesso non esiste più) e al momento che ha dato finalmente un senso al nostro rapporto di maestra e allieva.
L’ho affrontato con grande serenità e infatti non avevo studiato un bel niente di Storia (per me, che ancora non riuscivo a leggere fluidamente, studiare senza le immagini era un supplizio). Dopo il tema di Italiano mi ricordo che ci divisero un po’ a scaglioni, mentre interrogavano alcuni a matematica, misero altri a fare scienze e un disegno. Il disegno lo finii presto e così entrai in aula dove la maestra/istituzione stava interrogando in geometria. La geometria mi piace parecchio!
Toccava a Nicoletta, compagna intelligente, sempre ben preparata e molto più scolarizzata di me.
La maestra sorridendo cominciò a dettarle il testo di un problema e lei lo scrisse elegantemente alla lavagna, fece un bel disegno, riportò i dati e la domanda e… silenzio… si voltò impietrita: “non lo so fare”.
Momento di panico, la maestra guardò meglio la pagina: “Oddio, scusa Nicoletta, questo argomento non lo abbiamo fatto, lo farete il prossimo anno alle medie, cancella pure la lavagna”.
E io: “Scusate, ma io invece credo di saperlo fare, posso provare?”.
Erano entrambe incredule, in ogni caso mi disse che potevo avvicinarmi.
Il mio ultimo giorno di elementari ho alzato la mano e sono tornata di mia spontanea volontà di fronte alla stessa lavagna, alla stessa maestra, a dimostrare quello che sapevo fare.
Non ricordo esattamente il testo del problema, c’entravano una circonferenza e un triangolo equilatero inscritto, il raggio… Pitagora? Ricordo bene la faccia della maestra osservando il mio ragionamento perfetto e veloce.
Alla fine le chiesi: “Va bene così?”
E lei, ancora un po’ meravigliata, rispose: “Va benissimo Ilaria… penso che adesso puoi andare alle medie”.
E io, votata al sacrificio: “Ma no Maestra, dovete interrogarmi ancora in Storia…”
“No, fidati, sei pronta”. Come lo disse, con calma e orgoglio, davanti a mezza classe rimasta congelata, Nicoletta compresa.
Che botta d’autostima!
In quell’attimo si chiuse il cerchio perfetto. Quell’esame mi ha consegnato ai successivi impegni scolastici convinta di avere sì tantissimi limiti, ma anche infinite possibilità.
Aveva ragione la mia meravigliosa e terribile maestra/istituzione: io ero pronta. E a quel punto mi ci aveva portato lei, con le sue durezze, con le sue sfide assurde, con i suoi piccoli dispetti, ma anche con la sua capacità di sopportare le mie ripicche e, alla fine, di riconoscere i miei pregi oltre ai miei difetti e alle mie stravaganze.
In prima media ho dovuto davvero sgobbare molto per cercare di colmare i miei problemi di letto-scrittura, non esistevano i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e non avendo aiuti speciali, ho dovuto trovare con la logica una strada per aiutarmi da sola, inventarmi dei trucchi, ce l’ho fatta soprattutto perché mi ero convinta di avere la forza di potercela fare. Mi ero convinta di poter fare tutto quello che avrei voluto. E quindi diciamo che poi l’esame di 3° media con Ottimo, il 60/60 alla maturità, il 110 e lode alla laurea, il 1° posto al concorso a cattedre per l’insegnamento… contano molto meno e sono solo una logica conseguenza di quel primo grandioso esame e di quel primo disastroso giorno di scuola. Sono la conseguenza di una sfida nata e poi vinta davanti a quella lavagna e della consapevolezza che con la mia determinazione da quel momento in avanti avrei potuto vincerle tutte!

Gli esami, magari c’é chi li prende sotto gamba, ma possono contare molto nella vita, sono degli spartiacque. Per questo ci tenevo tanto che riuscissimo a far svolgere alle nostre 5° gli esami di Stato (la famosa “maturità”) in presenza.
Molti ragazzi si sarebbero venduti il cane pur di portare avanti una farsa a distanza, la paura ovviamente era tanta. Alla fine per fortuna li abbiamo delusi. Certe cose nessuno ha mai voglia di farle, ti ci devono costringere, ma quella fifa e quell’adrenalina ogni tanto ci vogliono nella vita!
Il terribile periodo che il mondo intero sta vivendo gli ha evitato di giocarsela agli scritti, peccato soprattutto per il tema di Italiano, perché quella sensazione da “fine di mondo” che ho provato il 24 giugno 1993, all’apertura della busta con i titoli, non è per niente una roba comune. Comunque, qualche brividino anche i miei studenti l’hanno provato e soprattutto grazie a me.
Per iniziare il colloquio interdisciplinare siamo partiti sempre da un’opera d’Arte. Io sono una persona corretta, non si fanno pagliacciate: non gli ho fatto nessuna anticipazione su che opera gli sarebbe toccata (nel programma dettagliato erano circa trecento). Ogni volta che andavo a proiettare l’immagine ero presa io stessa dal terrore, sapevo che erano preparati, ma se con il panico del momento avessero avuto un vuoto e non l'avessero riconosciuta? Non si sa mai… invece è andato tutto bene e alcuni non solo hanno analizzato in modo approfondito l’opera, ma sono riusciti a creare continui collegamenti interdisciplinari e a condurre un colloquio eccellente! Che bellezza!
Ho cercato di dare soddisfazione a tutti e concedergli quella spinta tanto determinante che, quando avevo solo 10 anni, fu data a me.
Li ho visti piangere, gioire, tremare, alcuni sono stati capaci di meravigliarmi e di riempirmi d’orgoglio, li conosco da 4 anni, come potevo rimanere distaccata emotivamente?
In sostanza, nonostante la serietà e l’entusiasmo, non sono l'insegnate adatta per fare il membro interno alla maturità: non ho dormito una settimana intera!
Poi, molto velocemente (solo orali di 60’ ciascuno, si fa presto), il 20 giugno anche questo esame è finito.
Ma io non ho potuto riprendere sonno fino al 23 giugno, mi aspettava un altro esame e ora vi spiego il perché.

Visto che gli esami alle elementari non esistono più, noi abbiamo trovato il modo di inventarcelo. 
La Piccola Fata è nata il 30 aprile 2014, è molto grande e sveglia, avrei potuto mandarla in 1° elementare a settembre 2019, ma non sono riuscita a capire se fosse o meno una buona idea, non volevo farle un torto. Tutti a dirmi “le togli un anno di giochi”, questione per me poco chiara, in che senso? Io comunque l’avrei rispedita alla materna 8h al giorno, non è che proprio l’avrei lasciata libera di farsi i cavoli suoi come me ne stavo io alla sua età.
Comunque, alla materna ci era sempre andata volentieri, il padre era contrario all’anticipo e quindi nulla.
A settembre ha iniziato il suo terzo anno all’asilo e mi ha sorpreso: piangeva e non voleva più andarci, ci è rimasta malissimo che le migliori amiche fossero andate alle elementari, ha iniziato a ribellarsi, non voleva più stare in cerchio a cantare (secondo una maestra: “meno male che non l’avete iscritta alle elementari, la bambina è regredita. Evidentemente è molto indietro. Quando raccontiamo una storiella lei non ha memoria e non capisce, ad ogni domanda risponde sempre “siamo in autunno”).
Ma se per due anni mi avevano detto che era intelligente, allegra e socializzava con tutti?
Non capisce??? Forse non ascolta!
“Matilde, ma perché non vuoi più ubbidire alle maestre e andare a scuola? Ti garbava tanto!”
“Ci sono tanti bambini piccoli e io mi annoio, voglio imparare a leggere e scrivere”.
Oioi, e ora?
“Facciamo un patto Tinne: adesso tu vai a scuola più allegra e provi a fare amicizia con i bambini nuovi e a divertirti, io ti prometto che a Natale, se ne hai ancora voglia, inizio a insegnarti io a leggere e a scrivere”.
Pensavo che se ne scordasse.
Il 1° dicembre abbiamo fatto l’albero e lei mi ha detto tutta seria: “adesso è Natale, insegnami”.
Così ho tirato fuori i quaderni del piccolo Elia (riesumare i miei orripilanti non mi pareva proprio il caso) e ho iniziato a farle fare le stesse identiche cose, ogni giorno voleva andare avanti. Pensavo che le passasse. Non le passava, ha iniziato a scrivere bigliettini d’amore per me e il fratello, a firmare e descrivere i disegni con cui decora tutta la casa. Siamo state insieme all’open-day della scuola elementare, ha parlato con le maestre e le è piaciuto tutto. Mi sono informata e ho scoperto che a giugno i bimbi possono fare un esamino per entrare direttamente in seconda. Quindi dopo due mesi mi sono resa conto che sarebbe stato il caso di chiamare una vera maestra per capire dove stavamo andando a parare.
La vera maestra mi ha detto che la bimba era sveglissima e interessata e che secondo lei era il caso di “cavalcare l’onda”.
Poi c’è stato il lock-down, la didattica a distanza, ore e ore davanti al PC, io che registravo video-lezioni e lei che disegnava in silenzio accanto a me, la sua bronchite, la mia polmonite, in tutto questo c’eravamo anche io e la mia Piccola Fata, un’ora ogni giorno solo per lei, per farla imparare.
Ho chiesto alla scuola i programmi da farle fare, mi hanno dato quelli comuni a tutte le classi dell’istituto.
Ha lavorato con grande dedizione, ogni tanto è stata più svogliata (quando l’argomento le piaceva meno).
Finalmente a fine aprile ho ottenuto di poter comunicare con le sue possibili maestre di seconda, volevo avere delle dritte per allineare la sua preparazione a quella delle sue compagne, mi hanno risposto, molto carine: “ma non si preoccupi, con il coronavirus si è praticamente fermata la didattica, non importa che le faccia fare l’intero programma, faremo un breve colloquio per conoscerci meglio, ci ricordiamo di Matilde, la accogliamo in seconda con tanto piacere”.
Vabbè, noi comunque siamo andate avanti su tutto, fino al 23 giugno.
Il giorno prima ho confessato alla mia mamma di essere terrorizzata. “Ma dai lalla, è un formalità, poi con molti studenti d’Italia che non hanno fatto nulla, lei è così brava, le faranno leggere e scrivere due frasi e fare due operazioni, che vuoi che sia?”
Temevo che potesse essere qualcosa di spiacevole per lei, magari un piccolo/grande trauma, perché ormai un po’ d’esperienza ce l’ho e conosco “la razza insegnante”…
Eccoci al 1° esame della Piccola Fata presentato da me come: “Tinne, che bello! Oggi andiamo a conoscere le maestre delle elementari, vogliono vedere cosa hai imparato, quindi tu sii educata, ascolta e fai tranquilla ciò che ti chiedono, non preoccuparti se qualcosa ti riesce di meno, ok?”
E lei subito “ti sbagli mamma, le abbiamo già conosciute all’open day”. Già, questa è quella senza memoria.
L’esame è stato sconcertante.
Innanzi tutto le due maestre carine non c’erano, c’erano un maestro e una maestra molto giovani e che hanno preso la questione parecchio seriamente.
L’hanno fatta sedere a un banco e l’hanno interrogata, giuro, su qualsiasi cosa per 1h e 30’. Una bambina che a un banco non c’era stata seduta mai. Ha tenuto la mascherina tutto il tempo.
Io ero a soli due metri da lei appena fuori dalla porta e ho ascoltato tutto.
Nella prima oretta ha fatto pure la splendida, esordendo con frasi tipo: ”Ma questo è un subacqueo, voi due lo sapete che è una delle “parole bagnate” che ci scrivono  con C e Q?” Poi gli ha detto tutte le altre e anche l’unica che si scrive con QQ. Ha proseguito tipo maestrina spiegando ai due mal capitati la storiella di Re Nome e dei suoi servitori gli Articoli e dei due birichini che perdono la faccia davanti alla vocale e gli resta una lacrimuccia… e via così di grammatica in grammatica, l’analisi della frase, singolare e plurale… dopo 60’ ha iniziato ad accusare la stanchezza e quando le hanno chiesto se conosceva i numeri ordinati non lo sapeva (non glieli avevo fatti) e neppure cosa fosse un numero precedente perchè non le avevo insegnato al parola (poi appena le hanno detto che era il numero che veniva prima allora lo sapeva), poi maggiore minore e uguale, ha fatto le operazioni, risolto un problema (ma arrancava, non ne poteva più), risposto in inglese, parlato dei 5 sensi e delle stagioni…
E’ uscito il maestro per fare delle fotocopie e gli ho spiegato che non le avevo mai parlato dei numeri ordinati e che la bambina mi sembrava un po’ provata.
“Sì Sì, non si preoccupi, nella prima parte è stata bravissima, molto pronta, poi adesso ci siamo resi conto che è stanca, ma siamo interessati a sondare tutto il programma”.
Madonnina celeste.
Al 90° minuto alla domanda secca “il fungo è un vivente?” era un po’ perplessa e a dire il vero anche io.
Ha risposto: “Sono stanca”:
“Lo sappiamo, ma secondo te è un vivente?”.
“Non lo so”
“… ma cresce come un albero…”
“… allora sarà vivente” che era un po’ come dire: fai un po’ come ti pare, a me non è che a quest’ora me ne freghi molto.
Fine.
I due esaminatori sono stati fin troppo accurati, ma per fortuna niente di umiliante, le hanno fatto un sacco di complimenti. Hanno voluto trattenere i 4 quadernoni di Matilde per farli vedere alle maestre spergiurandomi che me li restituiranno (devo impilarli con quelli belli di Elia e con quelli orripilanti miei).
Siamo usciti, ero più sfinita io di lei.
“Tinne sei stata bravissima, scusa che non ti avevo insegnato cosa fossero i numeri ordinati”
“Non importa mamma, tanto me l’hanno spiegato questi due maestri e adesso lo so”. Che mito.
“Mamma, ma come mai non c’erano le altre due maestre?”
“Oggi non sono potute venire, ma non ti preoccupare: gli raccontano tutto quello che gli hai detto e loro le rivedi a settembre”.
Dopo abbiamo chiamato la nonna e lei complimentandosi le ha spiegato un po’ meglio che aveva appena sostenuto un esame e da quel momento la Piccola Fata ha cominciato a vantarsi in giro con tutti. Speriamo bene, che questo strano inizio di istruzione parentale con maestra/mamma/dislessica sia per te un buon inizio e che questo lunghissimo primo esame ti porti fortuna.
Ma è solo il primo Piccola fata, gli esami non finiscono mai.

lalla

Quella con le braccia incrociate e dallo sguardo inferocito (che ben rappresenta il mio stato d'animo alle elementari) sono io, proprio di fronte alla mia amata/odiata maestra, l'unica da cui desideravo così tanto ottenere l'approvazione e che, solo pochi giorni dopo questa foto, finalmente e definitivamente me la concesse (cambiando per sempre la mia espressione).
Il cartellone con i ritrattini di tutti i compagni ovviamente lo avevo disegnato io.