sabato 2 aprile 2022

2022

C’è chi dice che chiedere scusa sia un segno di debolezza.
Allora io che lo faccio da una vita, a destra e a manca, e quasi sempre senza motivo, dovrei essere considerata debole, no? E invece, mistero, tutti mi considerano forte, una roccia. Indistruttibile.
E può anche darsi che io lo sia, per carità, ma questo non può essere una valida ragione. Una ragione per essere insensibili nei miei confronti. Una ragione per fregarsene di me e dimenticarmi. Per non offrirmi un appoggio. Che tanto lei è forte, che tanto lei ha mille risorse, che tanto lei sa cavarsela da sola, che tanto lei non ha problemi ed è sempre felice.
Col cazzo che non ho problemi e sono sempre felice. E non è vero che le persone non mi feriscono, invece, mi dilaniano. Con le loro piccole coltellate di cattiveria, e con la loro indifferenza.
Potrei essere una delle donne più sensibili su questa terra, ma nessuno se ne accorgerebbe mai perché io sono “quella forte”. Solo perché riesco ad assorbire tutti i colpi (come un pungiball) non significa che io non li senta. Solo perché mi sforzo per non far ricadere sugli altri le mie sofferenze, non significa che io non le provi.
Lasciate che vi dica una cosa: essere considerata “quella forte” può trasformarsi in una bella rottura di palle. (Aprirei una parentesi per sottolineare che sì, credo anche io nel potere della parola, ma scelgo coscientemente di usare l’espressione “mi rompo le palle” perché le ho anche io, proprio come quelle dei maschi, solo che invece che esporle in un sacchettino refrigerante, me le custodisco al calduccio, ma pari sono).
E’ una rottura di palle essere sempre colei che consola, colei che organizza e tira su il morale gli altri, colei che “si prende cura”. Non perché sia faticoso (o fastidioso) tutto questo, anzi, aiutare gli altri è bellissimo. La rottura di palle è quando diventa palese che non ci sarà nessuno che farà altrettanto con te. Se tra tutti i proverbi dovessi sceglierne uno che considero veramente un’emerita cazzata, sarebbe: “chi semina vento, raccoglie tempesta” (oppure “chi di spada ferisce, di spada perisce”). Ma quando mai? Non funziona così, non è vero proprio per niente: i prepotenti fanno del male ai più buoni, le persone sono approfittatrici e fredde soprattutto con chi è empatico e disponibile, sono più stronze con chi è più gentile. Non esiste alcuna giustizia divina, e neanche un cazzo di karma.

Ma magari è solo un problema mio di incomunicabilità.
Forse riguarda solo me. Sono io a non essere in grado di chiedere, a non far capire di cosa ho bisogno. Possibile? Davvero mostrare entusiasmo, gratitudine e un sorriso, nel linguaggio universale, equivale a: “non ho bisogno di cure, attenzioni e gentilezza, non preoccupatevi per me, tanto me la cavo benissimo da sola”?
Perché si fermano al mio sorriso? Che è splendido e solare (su questo siamo tutti d’accordo), ma perché nessuno è in grado di vedere oltre? Di percepire l’urlo disperato che lacera da dentro anche le persone più forti?
Io credo che sia per questo che è una vita che cerco di raccontarmi, a tutti, anche al gelataio. Per questo scrivo, per questo dipingo. Sono tentativi (disperati) di tirar fuori, di comunicare. Sono richieste (spesso mal calibrate) di aiuto e di approvazione.
Può darsi che tutti gli artisti in fondo cerchino questo? Superficialmente, molti sconosciuti gli danno ciò di cui hanno bisogno. L’acclamazione della massa. Non è granché come forma di appoggio, ma è pur sempre meglio di niente. Talvolta è più facile ottenere un aiuto da chi non ci conosce.
Le persone che mi sono state vicine, quelle che hanno vissuto con me, si sono sempre spaventate. Anche quelle che mi amano si spaventerebbero, se non si tutelassero. Per questo, io credo, si appoggiano a me, assorbono la mia gioia di vivere e con me stanno bene, ma cercano di fermarsi al sorriso. Cercano di non porsi troppe domande su quali siano i miei bisogni e, soprattutto, sul perché io senta una così forte esigenza di creare. Perché altrimenti, se lo facessero, gli farei solo paura.
 

Alla fine della prima ondata di pandemia Covid-19, ho dipinto l’allegoria del 2020, avevo bisogno di tirare fuori la frustrazione che provavo (e che provo tutt’oggi) nel non poter più comunicare neanche attraverso la mimica facciale e col mio famigerato sorriso. Nel non poter più leggere le espressioni complete. La pandemia ci ha tolto anche questo, ha amputato i nostri volti, sono rimasti solo gli sguardi. Per questo mi coprii bocca e naso con una mano e rimase solo il mio sguardo.(il Re dei Sugolini: 2020)
Sono passati due anni e i nostri volti sono sempre coperti. In questi giorni ho lavorato all’allegoria del 2022. Il nuovo anno, tanto per non farci mancare nulla, ci ha portato vicino a casa anche l’orrore della guerra. Non mi bastava più tentare di comunicare l’angoscia e la paura attraverso gli occhi, sarebbe stato troppo semplice. 

Ho cominciato a riflettere su cosa c’è sotto. Su cosa c’è dietro. Dietro a una rassicurazione e a una battuta fatte ai miei studenti. Dietro a quella mascherina maledetta. Perfino dietro al più onesto dei sorrisi fatto ai miei figli. Dietro alla mia stessa pelle. Cosa c’è dietro, cosa c’è sotto? Anche se non lo dico, anche se non posso dirlo, anche se mi rifugio nella leggerezza; talvolta c’è tutto quello che ho tentato di mettere in questo quadro. Disperazione e impotenza.
Ci sono per tutti e, credetemi, ci sono anche per me, che sono “quella forte”.


lalla

"Allegoria del 2022", olio su masonite, 42 x 57 cm.

P.S. Quando penso alla composizione e dipingo, non me ne rendo conto, ma la Storia dell’Arte ha impregnato tutta me stessa e si diverte ad inseguirmi. Una volta finito il quadro, l’ho guardato e mi sono resa conto di essere debitrice verso almeno due opere. 

“L’urlo” di Edvard Munch (per aver rappresentato un grido esistenziale muto) e “La cantante con un guanto” di Edgar Degas (per quell’inusuale braccio in primo piano e per la bocca aperta). E vabbè, loro sono entrambi dei grandi e mi perdoneranno, lo so.

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